Costretta dal datore a fare la dieta: quali tutele?
Una lavoratrice viene presa in giro dal datore perché troppo in carne, quindi, per ingraziarselo, riduce il consumo di cibi: può rivolgersi al Giudice?
Trovare un impiego dignitoso nei tempi attuali è una sorta di terno al Lotto, poiché tra i datori di lavoro (siano essi o meno titolari d’azienda) s’annidano parecchi individui che, lungi dal voler conferire valore alla prestazione dei propri collaboratori, si divertono a schernire questi ultimi, trattandoli alla stregua di pezze.
Esemplificando, diversi «principali», per rammentare ai propri subalterni… chi è che comanda, ricorrono spesso a maniere poco urbane allorquando si rapportano a costoro, ledendone considerevolmente la reputazione.
Se il capo dice alla segretaria «Sei troppo grassa: mangia di meno!», oppure «qui c’è una palestra: sarebbe bene se tu la frequentassi», cosa rischierebbe sotto il profilo legale? Quali sono le tutele di una lavoratrice costretta dal datore a fare la dieta?
Anche di questo si è occupata la giurisprudenza ed è interessante osservare qual è stata la decisione.
Cos’è il lavoro subordinato?
Tra i tipi contrattuali più ricorrenti nella realtà fattuale rientra senz’altro quello di lavoro dipendente (o subordinato, che dir si voglia.
L’articolo 2094 del Codice Civile definisce, in primo luogo, la figura del lavoratore – e, indirettamente, quella del datore -, identificandolo in quel soggetto che, in cambio di un compenso (la retribuzione), si obbliga a svolgere una determinata attività alle dipendenze e sotto la direzione di un’altra persona (sia essa fisica o giuridica).
Nonostante gli studiosi s’ostinino ad impiegare l’aggettivo «forte» per descrivere la figura datoriale, la maggior parte della normativa in materia appresta un’ampia sfilza di tutele al lavoratore (in virtù della sua «debolezza» fattuale), contenute vuoi nella Costituzione, vuoi nel Codice Civile, vuoi infine nelle leggi ad esso complementari e/o collegate, prima tra tutte la L. 300/1970 (correntemente denominata Statuto dei Lavoratori).
La Carta Fondamentale, in virtù del principio di solidarietà di sancito dall’art. 2, contiene una serie di previsioni che salvaguardano la dignità di chi s’impegna per portare un tozzo di pane a casa: la più rilevante di queste va identificata nell’art. 36 Cost., a tenore del quale il chi lavora ha diritto ad una retribuzione che sia proporzionata vuoi alla qualità, vuoi alla quantità del lavoro prestato in favore d’altri, in modo da consentire uno stile di vita dignitoso tanto a lui/lei quanto alla sua famiglia.
Leggendo in combinato disposto la statuizione testé richiamata e l’art. 2094 c.c., risulta più che agevole concludere che il contratto di lavoro ha natura sinallagmatica (cioè, è a prestazioni corrispettive): infatti, se – da una parte – il prestatore deve adempiere ai propri obblighi, dall’altra il soggetto «forte» è tenuto a retribuirlo e a salvaguardarne l’integrità fisica e la dignità morale.
Quali caratteri presenta lo straining?
Il datore di lavoro si sente spesso legittimato a pronunziare, ad indirizzo dei propri sottoposti, qualsiasi tipo di frase, anche se insaporita…con un pizzico di pepe: qualora gliene scappi una del genere, egli tende a giustificarla adducendo un apparente nervosismo, oppure asserendo di voler scherzare.
Alle parole, però, occorre dare il giusto peso, in quanto alcuni termini feriscono più delle botte: in determinate situazioni, benvero, esse possono assumere carattere vessatorio nei confronti del destinatario.
Il voler provocare nel lavoratore un esaurimento attraverso termini e/o frasi è uno dei tanti modi in cui si manifesta lo straining [1], tale da intendersi quella condotta datoriale che si sostanzia nel sottoporre i prestatori a condizioni di lavoro che ledono diritti fondamentali (tra i quali rientra, per l’appunto, quello alla dignità ed all’onore).
Il capo costringe, di fatto, la dipendente a fare una dieta: cosa rischia?
Immaginiamo che Ilaria, lavoratrice solerte, sia notevolmente aumentata di peso, arrivando a raggiungere valori stratosferici.
Il suo datore, tale Vespasiano, inizia a deriderla ogniqualvolta la incontra in ufficio, apostrofandola come «balenottera», «pianeta papalla», e via discorrendo, invitandola, contestualmente, a consultare un nutrizionista qualificato nella persona del di lui amico Bobby, allungandole il relativo bigliettino da visita [2].
Ebbene, un siffatto comportamento è un esempio lampante di straining, dacché il principale, con le sue frasi poco carine, denigra ed umilia l’impiegata, venendo così meno anche al dovere, postogli a carico dall’art. 2087 c.c., di preservarne la dignità morale [3].
Ma v’è dell’altro!
Posto che Ilaria e Vespasiano s’incontrano…praticamente ogni giorno, e che lavorano praticamente in tandem, il secondo sarà passibile di condanna per il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi, previsto e punito dall’art. 572 del Codice Penale: la Corte Suprema di Cassazione [4] ha evidenziato, sul punto, che la fattispecie in questione è configurabile ogniqualvolta la relazione tra datore e lavoratore sia intensa ed abituale.
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