Cos’è il falso del difensore?
Analizziamo tutte le ipotesi nelle quali un legale può commettere ed essere accusato del reato di falso.
Cos’è il falso del difensore? Fino alla riforma sulle indagini difensive, disposta con la novella del 2000 [1], il problema della falsità degli atti compiuti dal difensore nello svolgimento delle funzioni inerenti al suo ufficio era limitata sostanzialmente all’autentica della firma del proprio assistito posta sul mandato difensivo.
L’avvocato, per patrocinare una lite giudiziale (ma anche nel corso della mediazione o di una fase di trattative stragiudiziali volte al componimento bonario della lite, quindi finalizzate ad evitare di portare la controversia nelle aule giudiziarie) deve munirsi di un mandato, che viene definito procura alle liti [2].
In esso sono contenuti tutti i poteri conferiti al difensore (quali chiamare terzi, riassumere la causa, svolgere domande riconvenzionali, nominare sostituti) tra i quali anche il potere di transigere la lite, che va menzionato e conferito a parte.
L’avvocato, non essendo né un pubblico ufficiale né un incaricato di pubblico servizio, svolge in tal caso un servizio di pubblica necessità, e, in questa particolare attività, è sottoposto a delle responsabilità tipiche dei soggetti dapprima menzionati, con la possibilità di commettere e rispondere di falso ove attesti falsamente l’autenticità della sottoscrizione apposta sul mandato da parte del proprio assistito o, addirittura, arrivi a falsificarne la firma.
In concreto, poi, allorché ci si interrogava su che tipo di reato scaturisse da questa condotta, l’opinione prevalente in dottrina e giurisprudenza propendeva nel ritenere integrata non un falso ideologico ma, trattandosi di un esercizio privato di pubbliche funzioni, la fattispecie disciplinata dall’art. 481 del codice penale [3].
Le attestazioni di conformità nel processo telematico
Con l’avvento del processo telematico, ossia il procedimento giudiziale che viene introdotto attraverso l’uso di strumenti telematici (notifiche a mezzo PEC, depositi telematici di ricorsi, comparsa, etc.), una nuova funzione certificativa è stata attribuita all’avvocato: quella di attestare la conformità dei documenti informatici all’originale cartaceo o anche la conformità della copia digitale all’originale informatico [4].
A differenza dell’ipotesi in precedenza contemplata (l’autentica di firma dell’assistito da parte del difensore), eventuali attività di falsificazione nell’attività di attestazione delle copie all’originale sono state punite con il diverso e più grave reato previsto e punito dagli articoli sulla falsità materiale ed ideologica [5].
Per intanto nel processo tributario è espressamente previsto che nel compiere attività di attestazione di conformità, i soggetti coinvolti assumano ad ogni effetto la veste di pubblici ufficiali [6].
In differenti ipotesi, ha risposto di falso l’avvocato che abbia formato o modificato un provvedimento del giudice, comunicandolo al proprio assistito.
Era accaduto che l’avvocato avesse formato una sentenza totalmente inesistente, comunicandola al proprio assistito e facendogli credere di aver vinto la causa: in tale ipotesi la Suprema Corte, mutando la qualificazione della Corte di Appello (che aveva parlato di falsa attestazione), ha ritenuto trattarsi di vero e proprio falso ideologico, perché non c’era alcun originale del quale attestare la conformità [7].
Falso del difensore in indagini difensive
Il problema della falsità delle attestazioni del difensore si è riproposto da quando la riforma del codice di rito ha autorizzato lo stesso alle indagini investigative ai fini della prova processuale, di fatto conferendogli poteri similari a quelli del pubblico ministero. La riforma avrebbe per tale via attuato una piena parificazione tra i poteri investigativi dell’accusa e quelli della difesa, con la conseguenza che gli esiti delle indagini e le relative attestazioni assumono valore analogo a quelli della pubblica accusa, conferendogli valore di atto pubblico.
Per cui s’è riproposta la questione se continuare ad applicare l’art. 481 del codice penale, utilizzato per le false autentiche delle firma apposta sul mandato, trattandosi di attestazioni che il difensore rilascia come esercente funzione di pubblica necessità, ovvero di attestazioni false punibili secondo le relative norme perché si tratta di atti fede facenti.
La giurisprudenza, partendo dalla considerazione per cui la riforma del codice di rito ha attuato una piena parificazione tra difensore e p.m. riguardo le indagini, equipara quest’ultimo ad un pubblico ufficiale, per cui le relative attestazioni sono atti pubblici e conseguentemente il difensore è chiamato a rispondere di falso ideologico di cui all’art. 479 c.p., sebbene in modo occasionale e nelle limitate ipotesi in cui svolga un ruolo difensivo.
La soluzione ha comunque dato adito a non pochi dubbi: infatti, nonostante la ricomprensione degli atti difensivi nell’ambito degli atti pubblici, il difensore non può utilizzare le risultanze che emergono dalle indagini difensive svolte quando sfavorevoli al suo assistito, sicché in astratto si configurerebbe un’omissione di atti d’ufficio.
Proprio in questa ultima considerazione, risiede la critica più penetrante alla applicazione dell’art. 479 c.p. in merito alle false attestazioni del pubblico ufficiale perché se è vero che, coerentemente con l’ufficio svolto dal difensore, costui non ha l’obbligo di esibire ciò che può compromettere la posizione del proprio assistito, è sempre vero che ciò non va ad integrare una condotta di favoreggiamento. Pertanto, questo dato è indice di una non piena parificazione tra atti del p.m. e difensore, specie se si considera l’obbligo contrario del p.m. di riferire anche fatti e circostanze emerse dalle indagini e favorevoli all’indagato o all’imputato.
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