Cosa si intende per matrimonio forzato
Costringere o indurre una persona a sposarsi contro la sua volontà è un reato, che rientra tra i delitti contro il matrimonio.
Il fenomeno della costrizione o induzione al matrimonio è una realtà ancora oggi esistente, con remote radici culturali e religiose, diffusa non solo in Africa e in Asia ma anche in Europa e oltre oceano. Cosa si intende per matrimonio forzato? Con tale espressione si definisce l’unione matrimoniale in cui una o entrambe le persone coinvolte vengono fatte sposare contro la propria volontà. Di solito è la donna ad essere costretta a sposarsi e molto spesso è minorenne, in alcuni casi addirittura in età infantile (le cosiddette spose bambine).
Il matrimonio forzato è abitualmente praticato in Madagascar, Malawi, Mauritania, Niger e in alcune aree rurali del Sudafrica. In Asia, oltre a rappresentare ancora un’usanza in Pakistan, è molto diffuso in Afghanistan, India, Iran, Nepal e Sri Lanka. In Italia casi di matrimoni forzati sono stati registrati all’interno delle comunità di immigrati provenienti da Paesi in cui quest’usanza è ancora diffusa, soprattutto nelle regioni settentrionali, vedi l’Emilia Romagna, mentre meno al centro-sud, ad eccezione della Sicilia.
I fattori in base ai quali le donne vengono indotte a contrarre un matrimonio forzato sono diversi: la situazione di povertà della famiglia, un basso livello di istruzione, l’errata percezione che il matrimonio proteggerà le giovani da violenze e soprusi, le norme sociali o religiose, la discriminazione di genere per cui una donna, soprattutto se bambina, viene considerata più docile ed ubbidiente. L’isolamento sociale, la violenza domestica e l’abbandono scolastico sono ulteriori fattori dei matrimoni forzati.
I familiari, i parenti d’origine o acquisiti, i fidanzati imposti sono, in genere, coloro che costringono le donne a sposarsi. A tal fine le sottopongono ad ogni tipo di abusi e soprusi che vanno dalla violenza fisica e sessuale alle violenze verbali, dalla segregazione alla pressione mentale e sociale a cominciare dal ricatto affettivo, dalle limitazioni nella vita quotidiana che colpiscono la libertà di movimento o di abbigliamento alle scelte nel campo dell’istruzione e del lavoro.
In quest’articolo vediamo allora cosa si intende per matrimonio forzato e com’è disciplinato dall’ordinamento giuridico italiano.
Matrimonio forzato: cos’è e perché differisce dal matrimonio combinato
Per matrimonio forzato si intende un matrimonio rispetto al quale il consenso manifestato da almeno una delle due parti non è libero e viene estorto tramite violenze, minacce o altre forme di coercizione, come quelle psicologiche.
Dal punto di vista giuridico il matrimonio forzato va distinto dal matrimonio combinato, nel quale i genitori degli sposi o comunque dei terzi si limitano a un ruolo da guida nella scelta del partner, soprattutto per ragioni economiche o di potere, ma la decisione finale resta comunque degli sposi. Talvolta si ricorre al matrimonio combinato con scopo risolutore, come accadeva soprattutto in passato in caso di gravidanza indesiderata, oppure per permettere a persone immigrate di regolarizzarsi con i documenti.
Nel matrimonio forzato invece il libero e pieno consenso degli interessati viene a mancare e ciò integra una violazione dei diritti umani.
La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo infatti sancisce che “il matrimonio può essere concluso soltanto con il libero e pieno consenso dei futuri coniugi”.
Matrimonio forzato: com’è punito in Italia?
Nell’ordinamento giuridico italiano la legge n. 69/2019, cosiddetta Codice Rosso, al fine di punire i matrimoni forzati, ha inserito l’articolo 558 bis nell’interno del Codice penale, che prevede il reato di costrizione o induzione al matrimonio. Alla luce di tale norma chiunque con violenza o minaccia, costringe una persona a contrarre matrimonio o unione civile, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. La stessa pena si applica a chiunque approfittando delle condizioni di vulnerabilità o di inferiorità psichica o di necessità di una persona, con abuso delle relazioni familiari, domestiche, lavorative o dell’autorità derivante dall’affidamento della persona per ragioni di cura, istruzione o educazione, vigilanza o custodia, la induce a contrarre matrimonio o unione civile.
È previsto poi un aumento della pena se i fatti sono commessi in danno di un minore di 18 anni. La pena è da due a sette anni di reclusione se i fatti sono commessi in danno di un minore di 14 anni.
Le disposizioni dell’articolo in esame si applicano anche quando il fatto è commesso all’estero da un cittadino italiano o da uno straniero residente in Italia ovvero in danno di un cittadino italiano o di uno straniero residente in Italia.
Con l’articolo 558 bis del Codice penale il legislatore italiano ha adempiuto all’obbligo sancito dall’articolo 37 della Convenzione di Istanbul in base alla quale gli Stati firmatari avrebbero dovuto prevedere una sanzione penale per le condotte consistenti nel “costringere un adulto/a o un bambino/a a contrarre matrimonio” ovvero “nell’attirare intenzionalmente con l’inganno un/una adulto/a o un bambino/a sul territorio di una Parte o di uno Stato diverso da quello in cui risiede, allo scopo di costringerlo a contrarre matrimonio”.
La finalità dell’articolo 558 bis del Codice penale è quello di tutelare l’unione matrimoniale come libero consenso delle parti contro un matrimonio forzato o indotto mediante pressioni che possono essere sia fisiche sia psicologiche.
La norma quindi punisce ogni condotta volta alla costrizione o induzione al matrimonio esercitata con:
- violenza, caratterizzata dal fatto che viene utilizzato qualsiasi mezzo idoneo a coartare la volontà del soggetto passivo, annullandone la capacità di azione o determinazione;
- minaccia, intesa come prospettazione di un male ingiusto e notevole;
- abuso psicologico, che induce la vittima a contrarre il matrimonio non voluto attraverso l’utilizzo di mezzi meno diretti, ad esempio sottili pressioni psicologiche, ma comunque idonei a condizionarne la decisione.
Quali sono i dati dei matrimoni forzati in Italia?
Dal primo report sulla costrizione o induzione al matrimonio stilato in Italia dopo l’entrata in vigore del cosiddetto Codice Rosso e pubblicato dalla Direzione centrale della polizia criminale del Dipartimento della pubblica sicurezza, si evince che dall’agosto 2019 – data di entrata in vigore della Legge n. 69/2019 – al dicembre 2021 sono stati identificati 24 matrimoni con reati cosiddetti di “costrizione o induzione al matrimonio”.
L’85% di tali reati è stato commesso in danno di donne mentre il 73% è stato perpetrato da maschi; un terzo sono stati matrimoni minorili e il 9% delle vittime sono state bambine con meno di 14 anni, il 27% invece aveva tra i 14 ed i 17 anni; il 59% delle vittime era straniero. Il 40% degli autori del reato aveva un’età compresa tra 35 e 44 anni e si trattava in maggioranza di stranieri (pakistani, albanesi, bengalesi e bosniaci).
Peraltro, si tratta di dati non precisi perché manca tutto il sommerso: tale tipo di reato infatti spesso si consuma all’interno delle mura domestiche e le vittime sono quasi sempre ragazze giovani costrette ad abbandonare la scuola, talvolta obbligate a rimanere chiuse in casa nell’impossibilità di denunciare, anche per paura di ritorsioni, che non sanno nemmeno a chi rivolgersi.
L’introduzione nell’ordinamento giuridico italiano del reato di costrizione o induzione al matrimonio ha costituito un importante passo avanti rispetto alla situazione precedente. Prima infatti nel codice penale veniva disciplinata solo l’ipotesi si induzione al matrimonio tramite inganno [1], che punisce chiunque nel contrarre matrimonio avente effetti civile, con mezzi fraudolenti occulta all’altro coniuge l’esistenza di un impedimento che non sia quello derivante da un precedente matrimonio.
La sola tutela penalistica dei matrimoni forzati però non è sufficiente. Si potrebbe infatti avere un effetto contrario a quello perseguito. Le vittime potrebbero essere indotte a non denunciare le condotte criminose poste in essere nei loro confronti per la paura di incolpare propri familiari. Bisognerebbe quindi prevedere interventi di sensibilizzazione e di formazione, che permettano di individuare subito le situazioni più a rischio e costruire una rete di protezione che coinvolga servizi sociali, scuola, centri antiviolenza e/o case-rifugio, forze dell’ordine e magistratura.
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