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Condotte moleste fuori dall’ufficio: il licenziamento è giustificato?

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(@adriano-spagnuolo-vigorita)
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Il datore può recedere per giusta causa laddove il dipendente molesti le colleghe lontano dal luogo di lavoro?

In epoca attuale, come noto, le intemperanze verbali e fisiche nei confronti delle donne stanno aumentando in maniera esponenziale: le fonti mediatiche (anche non italiane) più diffuse riportano, infatti, notizie a dir poco allarmanti a tal riguardo, dal momento che i responsabili di siffatte azioni sono spesso coloro che, invece, dovrebbero mostrare gratitudine e rispetto verso il “gentil sesso”. Ma in caso di condotte moleste fuori dall’ufficio il licenziamento è giustificato?

Il posto di lavoro è uno dei luoghi principali in cui vengono poste in essere le azioni in parola: per tal ragione, è intento di chi scrive procedere ad una disamina del fenomeno di che trattasi e, contestualmente, illustrarne i risvolti dal punto di vista giuridico.

Il rapporto di lavoro: quali doveri?

Secondo l’articolo 2094 del Codice Civile, è denominato «lavoratore» (subordinato, o dipendente) quel soggetto che, previa corresponsione di una paga, si obbliga a svolgere una determinata prestazione nell’interesse e sotto la direzionedi un’altra persona (sia essa fisica o giuridica), che prende il nome di «datore».

Ciò implica il sorgere di obblighi reciproci in capo alle parti, dal momento che il lavoratore dovrà svolgere con la massima diligenza le proprie mansioni e, contestualmente, sarà tenuto a prodigarsi affinché ogni sua azione non arrechi al datore alcun pregiudizio. Esemplificando, giammai potrà svolgere un’attività in concorrenza con quella datoriale (cioè, il pescivendolo alle dipendenze di un supermercato non potrà aprire una pescheria), né potrà divulgare informazioni, diciam così, «top secret» inerenti all’attività aziendale.

Inoltre, ambedue le parti debbono comportarsi in modo conforme ai canoni di correttezza e buona fede.

Tra i tanti obblighi cui è soggetto il datore figura anche quello di far sì che vengano assicurate, sul luogo di lavoro, l’incolumità fisica e la personalità morale del dipendente (art. 2087 c.c.), di talché dovrà tanto vigilare affinché il dipendente non si faccia male – e, soprattutto, che la prestazione non si riveli per lui letale -, quanto fare in modo che l’onore e la dignità di costui non siano messi a repentaglio.

Quando l’insistenza nei confronti di un/una collega configura reato?

Accade sovente che, in un determinato gruppo di lavoro, vi sia taluno che, in preda ad appetiti contrari ad ogni principio morale, si relazioni alla colleganza in modo indiscreto, rendendosi protagonista di azioni riprovevoli, connotate da ossessività.

Ebbene, vi sono numerosi casi in cui una condotta insistente assume natura criminosa, perciò ci si ridurrà, in questa sede, ad elencare – tramite il ricorso ad un semplice e pratico schema – quelle più ricorrenti nella realtà dei fatti.

Potrebbe rischiare una condanna penale chiunque si fa venire la brillante idea di spedire al/alla collega messaggini a raffica, magari dal contenuto hard (si configura il reato di molestia, previsto e punito, dall’art. 660 del Codice Penale, se l’agente si limita a qualche chiamata, SMS o WhatsApp, mentre si configurano gli atti persecutori – comunemente denominati stalking, la cui disciplina è contenuta nell’art. 612-bis c.p. – laddove il comportamento generi nella vittima un durevole stato d’ansia o di paura tale da costringerla a cambiare le proprie abitudini di vita);

Il commettere azioni minatorie o violente, ovvero – per il capo, il direttore, il responsabile e così via – l’approfittare della propria posizione sovraordinata, per costringere la vittima a compiere atti sessuali (tali da intendersi non solo i metodi di consumazione del rapporto, ma anche il contatto con zone erogene contro la volontà del soggetto passivo) integra il delitto di violenza sessuale, previsto e punito dall’art. 609-bis del Codice Penale.

Molestie alla collega fuori dall’orario d’ufficio: il responsabile può essere licenziato?

Considerata la natura fiduciaria della relazione intercorrente tra datore e prestatore di lavoro, anche le condotte tenute dal secondo al di fuori dei locali in cui si svolge l’attività può assumere rilevanza sotto il profilo disciplinare.

La Suprema Corte, con una recentissima pronunzia [1], ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa (o, atecnicamente, «in tronco») intimato dall’azienda nei confronti del dipendente che, in orario extra-lavorativo, era avvezzo a molestare due colleghe e ad intrattenere con esse relazioni alquanto pregiudizievoli, vuoi per le vittime, vuoi per la reputazione della società datrice.

I Giudici di Piazza Cavour hanno chiarito, nel corpo della sentenza sunnominata, che il lavoratore – oltre ad osservare i divieti espressamente postigli – deve astenersi da qualsiasi condotta suscettibile di pregiudicare il proprio inserimento nell’organizzazione dell’impresa: in parole più semplici, ogni forma di molestia, violenza e prevaricazione non favorisce affatto la pacifica convivenza, ma, al contrario, provoca caos.

Ne consegue, dunque, che, a fronte di una condotta del genere – non corretta, né connotata da buona fede [2] -, il rapporto fiduciario è da ritenersi compromesso.

 
Pubblicato : 10 Gennaio 2024 06:41