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Concorsi ed esami pubblici: utilizzo di risposte elaborate da terzi

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(@gianluca-scardaci)
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Integra reato la condotta di chi in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado, per l’abilitazione all’insegnamento o all’esercizio di una professione, presenti, come propri, studi, pubblicazioni o lavori che sono opera di altri. 

Capita spesso, nei concorsi pubblici, che diversi partecipanti alle distinte sessioni di esami, dopo aver integralmente copiato quanto utile al superamento delle prove, magari attraverso la lettura di un blog o di altri utenti aventi i nickname più disparati o magari, più semplicemente, tramite utilizzo di vere e proprie bozze provenienti dall’esterno, presentino come propri gli elaborati consegnati.

Tale condotta, come sintetizzato in apertura, integra un reato, e, più in particolare, quello regolato dall’articolo 1 comma 1 della L. 19 Aprile 1925 n. 475, che prevede la reclusione da tre mesi a un anno.

Qualcuno però, ed è questo il caso che va analizzato, ha ritenuto che la fattispecie in questione non sia applicabile per esempio alla prova di accesso per l’iscrizione a una facoltà universitaria a “numero programmato”. Di qui, un’interessante pronuncia della Cassazione che ha stabilito come l’utilizzo di risposte elaborate da terzi in occasione di concorsi ed esami pubblici comporti l’integrazione del delitto in questione anche nell’ambito degli esami prescritti o richiesti per il conferimento di titoli scolastici o accademici.

Qual è la vicenda?

Tutto nasce da un’indagine di polizia giudiziaria attraverso la quale veniva contestata ad alcuni soggetti la attività diretta a falsare, giovandosi di aiuti esterni, i risultati delle prove di ammissione a determinate facoltà universitarie per le quali era previsto il numero programmato; in particolare veniva imputata ai diretti interessati, sia pur inizialmente, sotto la rubrica della truffa aggravata, l’acquisizione, tramite artifici e raggiri, dell’ingiusto profitto consistente nella conoscenza, attraverso comunicazioni con l’esterno, delle giuste risposte da dare ai quesiti ministeriali a loro sottoposti nel corso delle prove di ammissione, con conseguente danno a carico sia degli altri candidati che della struttura universitaria che aveva organizzato lo svolgimento delle prove.

Qual è stato l’esito del processo?

Il Tribunale competente  ha dettagliatamente illustrato il meccanismo volto ad alterare i risultati delle prove di ammissione ad alcune delle facoltà universitarie a “numero chiuso”, provvedendo però a qualificare il fatto non come truffa, come inizialmente contestato, bensì come condotta ascritta al reato di cui all’art. 1 comma 1 della legge n. 475 del 1925 e condannando i responsabili alle pene di legge, nonché al risarcimento dei danni alle parti civili costituite, ossia alle Università teatro dei fatti.

Le modalità operative attraverso le quali si sarebbe realizzata la condotta delittuosa sarebbero consistite nell’avere reso possibile, attraverso le attività di un soggetto che per le sua qualifica era a conoscenza del contenuto dei quesiti sottoposti ai candidati, veicolare le corrette risposte, tramite l’utilizzo di telefoni cellulari, a determinati candidati, i quali a loro volta le avrebbero utilizzate nella redazione dei propri elaborati. In buona sostanza, si sarebbero presentati come propri, in occasioni di esami, lavori che erano in realtà opera di altri.

Qual’era l’obiezione dei diretti interessati?

L’obiezione, secondo i ricorrenti, era che la fattispecie non rientrasse in quella astratta prevista dalla legge presuntivamente violata, perché si trattava di prove attitudinali che non rientravano tra gli esami prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di ogni titolo scolastico o accademico richiesti dalla norma in argomento. E quindi non poteva essere a loro attribuita la fattispecie prevista, frutto invece di una forzatura. L’esame di accesso al corso di laurea non era da intendere come prova di abilitazione all’insegnamento o all’esercizio di una professione.

Secondo la Cassazione, invece, non era così, per un condivisibile ragionamento: il positivo superamento della verifica di ammissione selettiva per l’accesso alla iscrizione a una facoltà universitaria a numero programmato costituisce, a dire della Suprema Corte, il “titolo”, cioè la condizione abilitante, per ottenere la successiva iscrizione al corso di laurea in questione, ossia al corso di laurea che consente l’accesso all’Accademia. A nulla valeva il fatto, ha proseguito la sentenza, che gli imputati avessero o meno utilizzato tale titolo al fine di ottenere la iscrizione al corso in argomento, dovendosi intendere questa circostanza tutt’al più come una forma di tentativo del reato contestato.

Possono intendersi come “lavori che siano opera di altri” gli elaborati forniti ai candidati da parte di terzi?    Si, perché il termine “lavori” comprende gli elaborati frutto di un impegno, o meglio ingegno, altrui.

Conclusioni

Il reato di antiplagio non si consuma solo in occasione di esami di abilitazione a una professione ma anche in relazione a vicende nelle quali comunque il contributo di terzi rechi un vantaggio preliminare in vista di una iscrizione a una facoltà universitaria a numero programmato.

 
Pubblicato : 27 Dicembre 2023 09:21