Come provare i maltrattamenti in famiglia
Gli abusi e le violenze reiterate nel tempo ai danni di un familiare/convivente vanno denunciati alle autorità. Bisogna però fornirne la prova affinché il colpevole venga condannato.
I maltrattamenti in famiglia sono sempre più frequenti. Non c’è giorno che passi senza che i mezzi di comunicazione parlino o scrivano di casi di abusi e violenze denunciati dalle vittime, commessi all’interno delle mura domestiche. Non è raro però che di molti maltrattamenti in famiglia non si abbia mai conoscenza per una certa ritrosia da parte di chi li subisce dallo sporgere querela. Ciò succede sia perché l’autore dei soprusi è un componente del proprio nucleo familiare sia perché è difficile fornire delle prove concrete.
In quest’articolo ci occuperemo proprio di tale argomento, cioè di come provare i maltrattamenti in famiglia. Infatti, contrariamente a quanto si crede, non sempre è necessario che qualcuno testimoni in giudizio in favore della vittima ma spesso sono sufficienti solo le dichiarazioni di quest’ultima a far condannare l’autore delle violenze e degli abusi domestici.
Procediamo con ordine e vediamo insieme in cosa consistono e come provare i maltrattamenti in famiglia, qual è la pena prevista e che fare se si è vittima di tale tipo di reato.
Cosa sono i maltrattamenti in famiglia?
L’articolo 572 del Codice penale punisce il soggetto che maltratta una persona di famiglia o comunque convivente o una persona sottoposta alla sua autorità o ad esso affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura e vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte.
Per persona di famiglia devono intendersi il coniuge, i consanguinei, gli affini, gli adottati, gli adottanti e in generale i soggetti legati da qualsiasi rapporto di parentela nonché i domestici, a patto che vi sia convivenza. Peraltro, quello della convivenza è un requisito importante in quanto comporta l’ammissibilità della fattispecie penale anche nei confronti del convivente more uxorio.
Il reato di maltrattamenti in famiglia non si configura solo nei riguardi delle persone facenti parte del nucleo familiare o conviventi ma anche di quei soggetti che sono sottoposti all’autorità o affidati all’autore del reato per diverse ragioni, quali ad esempio di educazione o di custodia, oppure per l’esercizio di una professione o di un’arte.
Altresì, la vittima del reato non è solo il soggetto maltrattato ma anche il figlio minorenne che assiste ai maltrattamenti (si pensi a un bambino di 6 anni che vede il padre picchiare la madre, ogni qualvolta si ubriaca).
Secondo la Cassazione nei maltrattamenti in famiglia rientrano le percosse, le lesioni, le ingiurie, le minacce, le privazioni e le umiliazioni imposte alla vittima ma anche gli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvono in vere e proprie sofferenze morali (vedi ad esempio il caso della moglie che è costretta a sopportare la presenza in casa dell’amante del marito [1]). Quindi, i maltrattamenti possono essere sia fisici sia morali e psicologici.
Le condotte che integrano gli estremi del reato devono essere legate tra loro in un vincolo di continuità tale da configurare un’abitualità. In pratica affinché si possa parlare di maltrattamenti in famiglia occorre una serie abituale di condotte che si estrinsecano in atti lesivi dell’integrità psicofisica, dell’onore, del decoro o di mero disprezzo e prevaricazione del soggetto passivo, attuati anche in un arco temporale ampio, ma entro il quale possono agevolmente essere individuati come espressione di un costante atteggiamento dell’agente di maltrattare o denigrare il soggetto passivo. Invece, fatti occasionali ed episodici, pur penalmente rilevanti in relazione ad altre figure di reato (ingiurie, minacce, lesioni), non sono idonei a configurare i maltrattamenti in famiglia.
Altresì, il reato in esame si può realizzare sia con comportamenti commissivi, come minacce o violenze, sia omissivi, ad esempio non fornendo cibo, assistenza oppure risorse economiche alla vittima. Anche tradire la propria compagna/compagno senza alcun rispetto svilendola/lo ed umiliandola/lo configura il reato di maltrattamenti in famiglia [2].
I maltrattamenti in famiglia
I maltrattamenti in famiglia sono difficili da provare in quanto vengono commessi all’interno delle mura domestiche, spesso senza spettatori. Tuttavia, la legge italiana prevede che per poter ottenere la condanna dell’autore del reato sia sufficiente la sola deposizione della vittima. Le dichiarazioni della persona offesa però possono avere validità di prova previa rigorosa verifica da parte del giudice della sua credibilità e dell’attendibilità di quanto raccontato.
I maltrattamenti in famiglia possono essere provati anche attraverso esami medici, sia in caso di violenza fisica che di violenza psicologica: in entrambe le ipotesi, infatti, un consulente specializzato è in grado di accertare l’eventuale sussistenza degli abusi denunciati dalla vittima. Ad esempio un accurato esame psichiatrico potrà attestare i gravi turbamenti derivati alla persona offesa dalle reiterate vessazioni subite in famiglia.
Ancora, la prova dei maltrattamenti in famiglia può essere fornita:
- con fotografie e filmati oppure con registrazioni audio (vedi il caso in cui la vittima abbia fotografato o filmato le condotte illecite commesse ai suoi danni dal familiare/convivente o abbia registrato le telefonate di questi contenenti minacce e ingiurie);
- attraverso le testimonianze delle persone che hanno assistito personalmente alle violenze o che comunque sono in grado di riferire in merito alle conseguenze negative che le stesse hanno provocato sulla salute della persona offesa. A tal proposito va ricordato che chiunque può testimoniale anche un familiare, i genitori della vittima oppure i figli.
Qual è la pena per i maltrattamenti in famiglia?
Il reato di maltrattamenti in famiglia è punito con la reclusione da tre a sette anni.
La legge n. 69/2019, cosiddetto Codice Rosso, ha previsto una fattispecie aggravata del delitto in esame che si ha quando il fatto è commesso in presenza o in danno di un minore o di persona in stato di gravidanza o di persona con disabilità ai sensi della Legge n. 194/1992, ovvero se il fatto è commesso con armi. In tal caso la pena è aumentata fino alla metà.
La pena base del reato è poi aggravata se dal fatto deriva una lesione personale grave, una lesione personale gravissima o la morte. In tali casi si applicano rispettivamente la reclusione da quattro a nove anni, la reclusione da sette a quindici anni, la reclusione da dodici a ventiquattro anni.
Il delitto di maltrattamenti in famiglia assorbe i reati di ingiuria, percosse, atti persecutori e minacce nonché le lesioni personali lievi o lievissime, se sono colpose. Per quanto riguarda le lesioni personali gravi o gravissime nonché la morte, se non sono volontarie, si applicano le aggravanti di cui sopra. Se invece sono volute dall’agente o, quantomeno, erano da lui concretamente prevedibili come conseguenza del proprio agire, concorrono con i maltrattamenti.
Cosa fare se si è vittima di maltrattamenti in famiglia?
La prima cosa che deve fare chi è vittima di maltrattamenti in famiglia è di presentare denuncia alle autorità. Va detto però che trattandosi di un reato procedibile d’ufficio, la querela può essere presentata da chiunque, quindi, anche da un conoscente o da un vicino di casa.
Se la vittima dei maltrattamenti è un minore ultraquattordicenne può sporgere querela personalmente; invece, se non ha ancora compiuto i 14 anni, il diritto di querela deve essere esercitato dall’altro genitore oppure da altra persona che ne abbia la rappresentanza, come ad esempio il tutore. Se invece il genitore è solo uno – perché ad esempio l’altro è morto – ed è proprio la persona che il minore intende querelare, la denuncia può essere sporta da un curatore speciale nominato dal Tribunale su richiesta del minore stesso o del pubblico ministero.
Dopo la presentazione della denuncia per maltrattamenti in famiglia la polizia giudiziaria deve trasmetterla immediatamente al pubblico ministero e si apre così la fase delle indagini preliminari.
Il pubblico ministero ha l’obbligo di sentire la vittima entro tre giorni dalla comunicazione della notizia di reato. Durante le indagini preliminari il giudice, su richiesta del pubblico ministero, può adottare determinate misure cautelari ai fini della salvaguardia dell’incolumità della vittima (ad esempio l’allontanamento dalla casa familiare o il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa).
Alla conclusione delle indagini se risulta fondata la responsabilità penale della persona denunciata, il pubblico ministero chiede il rinvio a giudizio per maltrattamenti in famiglia. L’imputato, quindi, viene sottoposto a processo, nel quale la vittima può costituirsi parte civile al fine di ottenere il risarcimento dei danni.
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