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Come difendersi da una causa di lavoro?

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(@antonio-pagano)
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Cosa può fare un datore di lavoro per difendersi o minimizzare le conseguenze quando un lavoratore gli intenta causa.

Capita sempre più sovente che i lavoratori, singolarmente o massivamente, intentino causa al proprio datore di lavoro.

Affrontiamo oggi le possibili difese che il datore può spiegare contro le iniziative dei propri dipendenti, suddivise e trattate attraverso le casistiche più ricorrenti.

È certamente vero che tutto il rito del lavoro [1], improntato alla celerità ed all’oralità, come pure lo Statuto dei Lavoratori [2], siano finalizzati ad una tutela (almeno in teoria) rapida e garantista nei confronti del lavoratore, storicamente e socialmente visto come la parte “debole” del rapporto lavorativo. E non è un caso che si sia coniato un procedimento apposito per le controversie individuali di lavoro e vi sia una sorta di “favor” dei giudici nel ritenere in qualche modo fondata la controversia di lavoro instaurata dal lavoratore nei confronti della parte datoriale, ritenuta da sempre la parte “forte” nella dinamica lavoristica.

Ma è altrettanto vero che non esiste alcuna presunzione di fondatezza delle ragioni del lavoratore (come la presunzione di innocenza dell’imputato nel processo penale), per cui si parte da una base paritaria delle due parti processuali, appunto lavoratore e datore di lavoro, che devono entrambe provare e/o confutare reciprocamente la tesi dell’altra.

Proviamo ora ad esaminare le casistiche più frequenti e le difese spendibili dal datore di lavoro in una causa intentata dal lavoratore.

Mansioni superiori e differenze retributive

È decisamente la casistica più ricorrente all’interno delle controversie individuali di lavoro tra privati: il lavoratore conviene in giudizio il proprio datore di lavoro al fine di accertare il fatto di aver svolto mansioni superiori rispetto a quelle per la quali è stato assunto, allo scopo di ottenere il riconoscimento della qualifica superiore e conseguentemente le differenze sulla retribuzione.

È chiaro che la prova deve essere puntuale e non generica e molto dipenderà dalla scelta del teste da parte del lavoratore e dall’attitudine di costui a riportare fatti rilevanti che costituiscano prova di mansioni superiori.

Pertanto non basterà che in qualche occasione il teste riferisca di aver visto il lavoratore svolgere quelle mansioni di livello più alto che gli varrebbero la qualifica superiore, ma che lo abbia osservato per un certo tempo (coincidente con il periodo del rapporto lavorativo sottoposto all’attenzione del giudice) e che ne possa riportare nello specifico le singole incombenze.

Ecco perché il teste “ideale” per tale tipo di controversia è un collega di lavoro.

Quindi intanto il teste può essere attaccabile sotto il profilo del periodo temporale di riferimento: il lavoratore, chiamato a deporre, che sia stato collega del ricorrente per un periodo minimo di permanenza nella stessa azienda, è chiaramente un teste attaccabile per questa stessa ragione.

Ma anche sotto il profilo delle mansioni, la difesa può essere efficace: anche un lavoratore, che abbia prestato la propria attività alle dipendenze della medesima impresa in cui lavora il ricorrente nello stesso periodo in osservazione, potrebbe non essere a conoscenza del lavoro svolto dal collega perché, ad esempio, impiegato in un settore diverso da quello di chi ha agito in giudizio.

Per fare un esempio immediatamente comprensibile, se un addetto al commerciale ha lavorato nella stessa azienda dove l’altro collega (che ha agito in giudizio per le mansioni superiori) ha svolto mansioni di amministrazione o di marketing, potrebbe non conoscere nulla delle mansioni svolte nello specifico dal collega e fornire una testimonianza lacunosa e talvolta del tutto inconferente.

Per quanto riguarda poi tutte le testimonianze, le cui risultanze vanno combinate assieme (si pensi al teste che ha visionato il ricorrente in un momento della giornata lavorativa, mentre l’altro in un differente momento), sarà abilità del difensore della parte datoriale muovere le censure rilevando le difformità, le incongruenze e addirittura le contraddizioni tra l’una e l’altra deposizione.

Per tutti i testi, poi, esterni all’azienda, che vengano a rendere testimonianza sulle mansioni superiori svolte dal ricorrente, le censure possono essere molteplici: dal grado di parentela (il genitore o il coniuge che accompagni il ricorrente sul posto di lavoro ogni mattina) per l’inattendibilità data dal grado di vicinanza col ricorrente; all’età (abbastanza semplice confondere il teste sperimentando la conoscenza dei fatti di causa, facendogli ricordare e collegare esperienze e ricordi avvenuti in momenti e circostanze diverse), fino ad arrivare – senza voler ovviamente fare discorsi classisti – al grado di istruzione dello stesso teste (è ovvio che per riportare alcune mansioni di livello molto specifico e/o con alto grado di professionalità è necessario avere conoscenza dettagliata del settore in esame e capacità valutativa in grado di riconoscere una prestazione lavorativa di livello più alto).

Licenziamento

Altra casistica tipica e frequentissima in ambito lavoristico è quella di opposizione a provvedimento di recesso del datore di lavoro: nel nostro ordinamento non esiste il cosiddetto recesso ad nutum, la libera recedibilità del datore di lavoro dal rapporto instaurato con il lavoratore, per cui è necessario un fatto, una causa o un motivo che giustifichi il licenziamento, sì da renderlo legittimo.

Per intanto, una prima difesa fondamentale è quella sulla tutela da applicarsi in ipotesi di licenziamento illegittimo: v’è una tutela chiamata reale, che prevede la reintegra nel posto di lavoro, ed una tutela obbligatoria, che prevede un indennizzo per il licenziamento illegittimo ancorata al requisito dimensionale dell’azienda, applicandosi la prima nell’ipotesi che l’azienda impieghi 15 lavoratori nella stessa unità produttiva o complessivamente 60, quando ve n’è più di una.

Il requisito dimensionale si prova a mezzo del cosiddetto LUL, il Libro Unico del Lavoro telematico, un registro unico che documenta lo stato occupazionale dell’azienda e certifica lo stato del rapporto di lavoro con ogni lavoratore, descrivendone in maniera sintetica ma completa i dati relativi al dipendente quali presenza e retribuzione.

All’interno del libro Unico del Lavoro, il datore di lavoro privato iscrive i lavoratori subordinati, collaboratori coordinati e continuativi e gli associati in partecipazione con apporto lavorativo, escludendo i coadiuvanti, i soci lavoratori, i tirocinanti e gli stagisti.

Questo documento costituisce prova inoppugnabile, se completo in tutti i suoi elementi e se comprensivo di tutte le categorie di lavoratori sopra indicati, e fa piena fede della dimensione dell’azienda e del regime di tutela applicabile al licenziamento posto al vaglio del giudice [3].

Ma anche in ordine ai motivi che hanno spinto il datore di lavoro al licenziamento, le difese spendibili sono ampie.

Anche nei casi più scontati di licenziamento nullo in quanto discriminatorio (ossia intimato e comminato per motivi di sesso, di credo religioso, di orientamento politico, di appartenenza ad una etnia diversa dalla propria o per una provenienza da una determinata parte del mondo o dello stesso paese, etc) per intanto l’onere della prova è a carico del lavoratore, che deve dimostrare che il proprio licenziamento è legato e fondato unicamente sulla discriminazione. Che non è sempre scontato, soprattutto in presenza di altri, rilevanti e predominanti, motivi legittimi, che potrebbero costituire giusta causa o giustificato motivo se provati dal datore di lavoro [4].

Anche nel licenziamento cosiddetto ritorsivo, ossia comminato per vendetta, la dimostrazione da parte del lavoratore che abbia agito in giudizio deve essere finalizzata a provare che ne abbia costituito motivo unico e determinante; ed anche questo non è affatto scontato, dal momento che alcuni provvedimenti estromissivi possono essere dettati da ragioni oggettive di ristrutturazione aziendale o anche da incompatibilità sopravvenuta del lavoratore con l’ambiente di lavoro o da rifiuto dello stesso a recepire nuove direttive o ad ottemperare a nuove norme disciplinari poste dal datore di lavoro per tutti i dipendenti.

Nel licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, l’onere della prova assolto dal datore di lavoro rende il licenziamento giustificato e quindi legittimo.

E qui si va dalla ristrutturazione o riorganizzazione aziendale (a patto ovviamente che sia effettiva ed in atto, e non meramente velleitaria e di facciata, per cui pretestuosa), che rientra nella libertà d’impresa del datore di lavoro e nella sua facoltà di autodeterminazione nell’atteggiare e gestire l’impresa come meglio ritenga, al fine di massimizzare il proprio profitto e minimizzare costi e sprechi, alla presenza di giusta causa o giustificato motivo.

Nell’ultima ipotesi, le casistiche sono tali e tante che trattarne diffusamente occuperebbe ben più di un articolo. Ma a titolo esemplificativo, potremmo indicare come giusta causa il superamento del periodo di comporto [5] da parte del lavoratore o lo svolgimento di attività lavorativa nel periodo di malattia tale da far presumere l’inesistenza della malattia stessa o se tale attività abbia pregiudicato o ritardato la guarigione, e come giustificato motivo la negligenza, imprudenza o imperizia nel rendere la prestazione lavorativa, l’assenza ingiustificata dal lavoro, il mancato rispetto di direttive aziendali, la violazione di norme disciplinari, la falsificazione o diffusione di dati aziendali sensibili.

Sono tutti fatti, circostanze e comportamenti che, se debitamente provati, scagionano il datore di lavoro da colpa e rendono il licenziamento legittimo.

Mobbing

Per “mobbing” si intende un insieme di comportamenti aggressivi e persecutori posti in essere sul luogo di lavoro, al fine di colpire ed emarginare la persona che ne è vittima.

Su questa tematica esistono una serie di false convinzioni ed approssimazioni che inducono spesso il lavoratore a ritenersene immotivatamente vittima.

Il mobbing non è una mera situazione di stress, causata da carichi eccessivi di lavoro, situazioni personali incomprese dal datore di lavoro o pressioni dovute al raggiungimento di obiettivi aziendali.

Esistono tutta una serie di azioni o comportamenti che integrano una condotta mobbistica (quali l’isolamento all’interno dell’ambiente lavorativo, oggettivo tramite un collocamento in una sede o in una postazione particolarmente scomoda o soggettivo attuato attraverso l’esclusione da riunioni, progetti, comunicazioni aziendali, corsi di aggiornamento e altre attività); ma altre che sono talvolta al limite tra una condotta ed un comportamento legittimo del datore di lavoro ed un vero e proprio abuso e condotta vessatoria: per citare alcuni esempi illuminanti una cosa è divenire bersaglio di battute e scherzi, che avvengono spesso anche nel quotidiano (magari in ambiente familiare o amicale) un’altra è divenire oggetto di insulti e comportamenti ostili di vario genere, fino a ritrovarsi al centro di una vera e propria campagna diffamatoria portata avanti nei propri riguardi dal datore di lavoro o da suoi collaboratori e/o dipendenti.

Soprattutto in queste ipotesi l’intensità e la continuità di tali comportamenti vanno verificate caso per caso ed è praticamente impossibile determinarne a priori la lesività: tutto dipenderà dalla prova fornita in sede giudiziale, tanto da arrivare al paradosso di far passare come condotte lesive alcune che non siano state poi così marcate ed evidenti e non riuscire a provare delle condotte realmente vessatorie, per mancanza di riscontri oggettivi o per difformità nella raccolta delle circostanze.

Ma un punto fermo, che qualifica il mobbing e lo distingue da condotte pur sgradevoli ma non lesive, è la lesione oggettiva della salute, della personalità o della dignità del lavoratore, che deve sussistere sempre per integrare la fattispecie, ed un nesso di causalità diretta tra il comportamento persecutorio e la lesione alla propria salute, personalità e dignità.

Quindi è chiaro che la difesa attuabile da parte del datore di lavoro può e deve essere rivolta non solo a negare il carattere persecutorio della condotta (che – come visto in precedenza – talora non è così netto e marcato), ma a sconfessare la lesione ed il conseguente danno alla salute, alla personalità ed alla dignità del lavoratore che ha agito in giudizio.

Anche il rapporto di causa effetto della condotta lesiva sul danno è ampiamente confutabile, laddove – ad esempio – sussistano delle concause che risultino determinanti o prevalenti nella causazione del danno stesso.

 
Pubblicato : 19 Agosto 2023 06:00