Chi decide gli stipendi in Italia?
Si può cambiare lo stipendio previsto dal contratto collettivo?
In un’epoca in cui si parla spesso di salario minimo e di come, nel nostro Paese, le retribuzioni dei dipendenti crescano molto meno rispetto a quelle degli altri Stati UE, è normale chiedersi chi decide gli stipendi in Italia.
È un problema serio, specie dopo l’abolizione della cosiddetta “scala mobile”, un meccanismo che, dal 1945 fino agli anni 80, ha garantito un automatico adeguamento dei salari al costo della vita. In pratica, all’aumento dell’inflazione aumentavano anche le buste paga. Il che costituiva, per tutti i lavoratori, un valido ombrello dalla svalutazione economica.
Oggi le cose non stanno più così. Ma allora qual è il sistema per il calcolo dello stipendio se la legge non detta criteri fissi? Cerchiamo di comprenderlo.
La differenza tra lavoratori dipendenti ed esterni
Dobbiamo innanzitutto operare una distinzione fondamentale tra:
- lavoratori dipendenti (o subordinati);
- lavoratori esterni o a contratto.
La legge si occupa di garantire uno stipendio minimo solo ai lavoratori dipendenti, indipendentemente dalla natura del contratto, se cioè part-time o full-time, a tempo determinato o indeterminato, a prova o meno, con o senza apprendistato. Di tanto parleremo meglio nei successivi paragrafi.
Diverso invece è il caso dei lavoratori legati da un semplice contratto di collaborazione esterna, siano essi professionisti, Partite Iva o lavoratori con co.co.co. Per questi ultimi, il compenso è oggetto di libera trattativa tra le parti. Non ci sono regole, minimi e garanzie, se non quelle stesse previste nella scrittura privata.
Il criterio dei contratti collettivi
Abbiamo detto che in Italia non c’è un sistema legale per definire il salario minimo dei dipendenti. Questo tuttavia è rimesso ai Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro, i cosiddetti CCNL. Si tratta di accordi stretti tra le rappresentazioni delle categorie dei lavoratori (sindacati) e quelle dei datori di lavoro.
Per ogni categoria lavorativa esiste un diverso CCNL e quindi una differente retribuzione.
La retribuzione può variare in base a una serie di parametri come il livello contrattuale del dipendente, l’anzianità di servizio, i titoli di studio del dipendente, le mansioni svolte (esistono infatti delle indennità per specifiche attività che implicano una maggiore responsabilità o rischio).
Le paghe possono poi variare in base agli straordinari fatti e alle ore di lavoro espletate durante le festività (per le quali è prevista una maggiorazione).
Possiamo dire, in generale, che tanto più matura esperienza e promozioni il dipendente, tanto più viene pagato.
Quella però contenuta nei contratti collettivi è solo la previsione del cosiddetto minimo sindacale, ossia la paga base. Nulla toglie che il datore di lavoro possa poi accordare delle maggiorazioni.
Le differenze retributive tra dipendenti
Il datore che rispetta il minimo sindacale non è poi tenuto a garantire a tutti i dipendenti lo stesso trattamento retributivo. Non esiste cioè un principio di parità di trattamento tra tutti i lavoratori.
L’imprenditore è quindi libero di pagare di più un individuo piuttosto che un altro a patto che rispetti il minimo previsto dal CCNL. Tuttavia la differenziazione di trattamento non deve risiedere in ragioni discriminatorie come il sesso, l’orientamento politico o sessuale, le condizioni di salute, ecc.
La giurisprudenza
La Corte di Cassazione ha recentemente preso una posizione che potrebbe cambiare il modo in cui vengono stabilite le retribuzioni dei lavoratori. Fino ad ora, era comune che le retribuzioni fossero decise attraverso i contratti collettivi, che – come abbiamo detto – sono degli accordi tra le aziende e i rappresentanti dei lavoratori. Questi contratti stabiliscono le condizioni di lavoro, inclusi gli stipendi, per tutti i lavoratori di un certo settore o azienda.
Tuttavia, alcune nuove sentenze della Cassazione, come la numero 27722 del 2 ottobre 2023, hanno iniziato a mettere in discussione questo sistema. La Corte ha detto che gli stipendi decisi nei contratti collettivi possono essere rivisti dal giudice se non rispettano certi principi fondamentali, come l’equità e l’adeguatezza, che sono previsti dalla Costituzione italiana (articolo 36).
Questo significa che, se uno stipendio concordato in un contratto collettivo è giudicato troppo bassoe non rispetta questi principi, potrebbe essere aumentato dal tribunale.
Questo cambiamento non vuole rompere completamente con il passato, ma vuole assicurarsi che gli stipendi siano giusti e adeguati al lavoro svolto.
La Corte di Cassazione sta incoraggiando l’uso di questo nuovo approccio, che permette al giudice di controllare più attentamente se gli stipendi rispettano o meno i criteri stabiliti dalla Costituzione. Si tratta di un cambiamento importante: in patto infatti, tale tipo di controllo era più teorico e meno applicato nella pratica.
La Corte di Cassazione ha lanciato un messaggio importante al legislatore: anche se fosse introdotto un salario minimo per legge, questo non potrebbe sostituire il ruolo del giudice. Il giudice, infatti, ha il compito di valutare, in ogni situazione specifica, se lo stipendio pagato (anche se stabilito per legge) rispetta i principi fondamentali della nostra Costituzione.
Lo sfruttamento del lavoro del dipendente
Detto principio è stato adottato anche dalla Cassazione in ambito penale, specialmente riguardo alle leggi che combattono lo sfruttamento lavorativo. Per esempio, c’è una legge che punisce chi sfrutta i lavoratori (articolo 603 bis del Codice penale), che è stata introdotta nel 2011 e poi rinforzata nel 1996.
Un caso significativo è stato trattato dalla Cassazione con la sentenza numero 2573/2024, datata 22 gennaio. In questo caso, i proprietari di un’azienda agricola che pagavano i lavoratori extracomunitari 3 euro all’ora per giornate di 9 ore sono stati giudicati per sfruttamento. Il motivo è che questo stipendio era molto inferiore rispetto a quello previsto dai contratti collettivi nazionali per quel tipo di lavoro. La Corte ha visto in questo una “macroscopica sproporzione”, cioè una differenza enorme e ingiusta, che indica lo sfruttamento lavorativo.
La Corte di Cassazione ha fatto notare che lo stipendio pagato ai lavoratori non solo era molto inferiore a quello previsto dal contratto collettivo, ma ha anche evidenziato un punto molto importante: non sempre lo stipendio indicato nei contratti collettivi è quello giusto da usare come termine di confronto. Se lo stipendio stabilito da un contratto collettivo non rispetta il principio dell’articolo 36 della Costituzione, che richiede uno stipendio sufficiente a garantire una vita dignitosa al lavoratore e alla sua famiglia, allora bisognerebbe confrontarlo con uno stipendio più alto.
Conclusioni
Questo ci fa capire che le organizzazioni che rappresentano i lavoratori e i datori di lavoro devono prestare molta attenzione non solo alla quantità dello stipendio, ma anche alla sua adeguatezza, soprattutto per gli stipendi più bassi. Devono rispettare dei criteri ben precisi, che sono impegnativi e non sempre facili da definire.
Per le aziende, si tratta di una nuova e importante sfida: devono valutare attentamente, in ogni situazione, se uno stipendio particolarmente basso è giusto o meno. C’è una soglia, detta “minimo costituzionale”, stabilita dai giudici, che non può essere ignorata. Se lo stipendio è al di sotto di questa soglia, viene considerato non legittimo.
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