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Causa al datore per discriminazione al lavoro: come funziona

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(@carlos-arija-garcia)
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Gli strumenti a disposizione del dipendente per difendere i propri diritti. Chi può agire e cosa può decidere il giudice.

La legge vieta ogni tipo di discriminazione al lavoro per motivi di sesso, di razza, di religione, di lingua, di pensiero politico o di convinzioni personali. Per difendere i suoi diritti, il lavoratore può agire da solo oppure con un’azione collettiva. Arrivati in tribunale, la causa al datore per discriminazione al lavoro, come funziona?

Ci sono delle sfumature diverse a seconda della discriminazione subita. In alcuni casi, ad esempio, possono intervenire delle associazioni al posto del dipendente o dei dipendenti discriminati. Prima, però, di presentarsi davanti a un giudice, spesso viene richiesto un tentativo di conciliazione per cercare un accordo finalizzato alla rimozione della discriminazione contestata.

La causa per discriminazione sessuale

La normativa tutela le vittime di discriminazioni di tipo prevalentemente sessuale in ambito lavorativo, distinguendo due ipotesi: una individuale e una collettiva.

Per l’azione individuale, il dipendente ha a disposizione i seguenti strumenti:

  • la procedura di conciliazione prevista dal contratto nazionale di categoria;
  • il tentativo di conciliazione promosso dal lavoratore o dal consigliere di parità competente per territorio;
  • la causa in tribunale, per la quale il lavoratore può delegare il consigliere di parità;
  • il ricorso d’urgenza al giudice del lavoro del luogo in cui è avvenuta la discriminazione.

In caso di azione collettiva, prima di agire in tribunale è possibile fare una richiesta al datore di un piano di rimozione delle discriminazioni da predisporre entro 120 giorni, sentite le rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza, le associazioni locali aderenti ai sindacati maggiormente rappresentativi a livello nazionale.

Se il piano è idoneo, il consigliere può promuovere il tentativo di conciliazione: il verbale, in copia autenticata, ha forza di titolo esecutivo con decreto del giudice del lavoro.

In entrambi i casi, è possibile presentare un ricorso in tribunale o avviare una procedura d’urgenza: il giudice, entro due giorni dal deposito del ricorso presso il Tribunale del lavoro competente per territorio, convoca le parti, assume sommarie informazioni e, se sussiste la discriminazione, con decreto motivato e immediatamente esecutivo, ordina al datore di cessare il comportamento, e provvede affinché siano rimossi gli effetti. Inoltre, se richiesto, stabilisce il risarcimento del danno a favore del lavoratore o dei lavoratori.

Contro il decreto, entro 15 giorni dalla comunicazione alle parti, è ammessa opposizione davanti allo stesso giudice, che decide con sentenza immediatamente esecutiva.

Il lavoratore che ricorre in tribunale perché vittima di una discriminazione per molestia o una molestia sessuale non può, per questo, essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito o sottoposto ad altra misura organizzativa che abbia per lui degli effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro.

La causa per altre discriminazioni

Oltre a quella di tipo sessuale, la legge tutela i lavoratori da tutte le altre discriminazioni e, in particolare, da quelle per motivi di:

  • razza e origine etnica: oltre ai dipendenti, possono anche agire le associazioni e gli enti impiegati nel campo della lotta alle discriminazioni e alla promozione della parità di trattamento;
  • religione, convinzioni personali, handicap, età e orientamento sessuale, in materia di occupazione e condizioni di lavoro: in questo caso, possono agire le organizzazioni sindacali, le associazioni e organizzazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso.

In ogni caso, le associazioni sono legittimate ad agire in giudizio su delega del lavoratore, tranne quando ci sono delle discriminazioni collettive e non sono individuabili in modo diretto e immediato le persone lese.

Se ad agire è il sindacato, a tutela di interessi omogenei individuali di rilevanza generale, è possibile chiedere e ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale. Il sindacato è legittimato a promuovere tale azione perché l’esercizio dei diritti legati alla libertà sindacale è una delle possibili tipologie di discriminazione per convinzioni personali.

Il giudizio è regolato dal rito sommario di cognizione, salvo diversamente previsto.

Il lavoratore deve provare i motivi per cui denuncia la discriminazione quando questa interessa:

  • le assunzioni;
  • le retribuzioni;
  • l’assegnazione di mansioni e qualifiche;
  • i trasferimenti;
  • la progressione in carriera;
  • i licenziamenti.

Causa per discriminazione: cosa può decidere il giudice?

In caso di causa per discriminazione, il giudice può:

  • condannare il datore al risarcimento del danno, anche non patrimoniale;
  • ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio pregiudizievole, adottando ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti.

Il giudice può anche ordinare di adottare un piano di rimozione delle discriminazioni accertate, fissando un termine entro cui adempiere. Nei casi di comportamento discriminatorio di carattere collettivo, il piano è adottato sentito l’ente che presenta il ricorso.

Per la valutazione del risarcimento del danno, il giudice tiene conto del fatto che l’atto o il comportamento discriminatorio costituiscano ritorsione a una precedente azione giudiziale oppure ingiusta reazione a una precedente attività del lavoratore volta a ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento.

 
Pubblicato : 7 Luglio 2023 09:00