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Attentato a Palmiro Togliatti – I grandi processi d’Italia

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(@paolo-remer)
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Quando l’agguato al leader del Pci portò la Nazione sull’orlo della rivoluzione e della guerra civile: il perché del gesto di Antonio Pallante e i misteri nascosti.

Siamo agli albori della Repubblica italiana, nel luglio del 1948: dopo la catastrofica seconda guerra mondiale e la fine del tragico regime fascista, era nata la nuova Costituzione e nelle ultime elezioni la Democrazia Cristiana aveva sconfitto il Fronte Popolare, che univa in alleanza il Partito Comunista ed il Partito Socialista. La tensione politica fra i “bianchi” ed i “rossi” era elevata, e un episodio di violenza inaudita fece precipitare le cose: l’attentato a Palmiro Togliatti, che rappresenta non solo uno dei più grandi processi d’Italia ma anche un momento in cui la Nazione si trovò improvvisamente sull’orlo della rivoluzione e di una catastrofica guerra civile.

Attentato a Togliatti: la cronaca del giorno

Il 14 luglio 1948, nella tarda mattinata, il segretario del Pci, Palmiro Togliatti, stava uscendo da Montecitorio, la sede della Camera dei deputati, in compagnia di Nilde Jotti, quando un giovane studente universitario, Antonio Pallante, che lo aspettava seduto sui gradini dell’ atrio di via Della Missione, gli si fece incontro e gli sparò quattro colpi di pistola con proiettili calibro 38. La distanza era ravvicinata: tre colpi andarono a segno e colpirono il famoso esponente politico alla testa, al polmone sinistro e all’addome, nella zona della milza.

Togliatti – soprannominato “Il Migliore” in quanto leader di spicco e capo indiscusso del maggior partito d’opposizione – fu ricoverato d’urgenza al vicino ospedale Policlinico di Roma, dove fu sottoposto a terapia intensiva e a una delicata operazione chirurgica (un proiettile si era conficcato nella nuca e aveva perso molto sangue): le sue condizioni erano molto gravi, ma dopo qualche giorno fu dichiarato fuori pericolo e sopravvisse al ferimento.

Attentato a Togliatti: le reazioni

Fin dalle prime ore, le reazioni all’attentato a Togliatti furono enormi: tutte le forze di sinistra – non solo i comunisti, ma anche i socialisti – promossero di propria iniziativa scioperi in tutte le fabbriche d’Italia, che furono occupate, e organizzarono cortei e manifestazioni di protesta nelle maggiori città. Milioni di italiani scesero nelle strade e nelle piazze. Tra l’altro, la Cgil indisse in quell’occasione uno sciopero generale, che non fu condiviso dalla componente cattolica del sindacato, dando così origine alla scissione e alla nascita della Cisl.

Il clima era molto teso e si arrivò molto vicini ad un gravissimo scontro sociale. Sembrava che stesse per iniziare una rivoluzione comunista, proprio quella che era stata paventata, appena tre mesi prima, dalla Dc durante la campagna elettorale: gli animi erano inaspriti dal tentativo di assassinio del “Migliore”, e si pensava che la mano di Pallante fosse stata animata da forze reazionarie e neofasciste.

Anche i servizi segreti statunitensi, preoccupati dell’accaduto, pensavano che egli fosse stato un semplice killer a pagamento, assoldato da “poteri forti” e antidemocratici per compiere un omicidio che, a causa delle inevitabili reazioni dell’opinione pubblica e dei militanti, avrebbe destabilizzato e sconvolto l’Italia, per portarla nell’orbita sovietica oppure, stando ad altre versioni,  per farla precipitare di nuovo nel fascismo.

In quei giorni i dimostranti in piazza chiesero a gran voce le dimissioni del Governo e ci furono violenti scontri tra i manifestanti e la Polizia: morirono 30 persone (16, secondo il ministero dell’Interno, tra cui 7 agenti) e altre 800 rimasero ferite. Gli arresti furono migliaia.

Come Togliatti sedò la rivolta popolare

Intanto Togliatti, appena ristabilito dopo l’operazione, calmò personalmente gli animi e invitò i manifestanti a interrompere tutte le iniziative di protesta. Fedeli al proprio leader, i deputati del Pci ritirarono la richiesta di dimissioni del Governo e il capo della Cgil, Giuseppe Di Vittorio, il 15 luglio terminò lo sciopero generale.

Il Migliore, così come il suo successore Enrico Berlinguer qualche decennio dopo, credeva nella legittimazione democratica del Partito Comunista – che aveva partecipato fattivamente all’Assemblea Costituente – come forza politica di governo, e non certo come fautore di violenza e lotta armata.

Il Piano K: come andarono le cose

Quella dell’attentato a Togliatti era l’epoca in cui già si vociferava di un fantomatico “Piano K“, mediante il quale i comunisti avrebbero dovuto scatenare l’insurrezione armata in tutta Italia, per conquistare il potere e trascinare il Paese sotto il dominio di Stalin, che secondo i “ben informati” aveva architettato l’operazione.

Il ministro dell’Interno dell’epoca, il democristiano Mario Scelba, credeva fermamente in questa tesi, e ciò spiega anche la fermezza della repressione contro le manifestazioni di piazza.

A distanza di decenni, appare chiaro, invece, che proprio l’uomo che avrebbe dovuto capeggiare l’insurrezione ed il colpo di stato, Palmiro Togliatti, fu colui che, con la sua autorevolezza ed il suo carisma, ebbe il ruolo decisivo nel sedare la rivolta popolare, impedendo ogni vendetta e non approfittando del suo ferimento come pretesto per conquistare il potere.

Il ruolo del ciclista Gino Bartali

Col senno di poi, alcuni storici ritengono che la pericolosa situazione fu risolta dall’apporto inconsapevole del famoso ciclista Gino Bartali (il rivale dell’ancor più celebre Fausto Coppi) che proprio in quei giorni di luglio, mentre gli scontri di piazza culminavano, vinse a sorpresa il Tour de France, nonostante i suoi 34 anni di età.

Gli italiani si ritrovarono festosamente uniti di fronte a questo inaspettato successo sportivo, e abbandonarono i propositi di rivolta popolare. Un po’ come, in tempi più recenti, le imprese della Nazionale di calcio hanno fatto presto dimenticare alcuni episodi cruenti del terrorismo e della mafia.

In realtà, come abbiamo visto, il ruolo decisivo nello spegnere l’insurrezione fu quello dello stesso Togliatti, non la vittoria ciclistica, per quanto significativa.

Chi era Antonio Pallante, l’attentatore

Nel 1948 Antonio Pallante, l’attentatore, era un ventiquattrenne studente di giurisprudenza, fuoricorso. Di origine siciliana, aveva già un’esperienza politica: durante la campagna elettorale per le elezioni dell’aprile 1948 aveva militato nel Partito Qualunquista, un movimento “antipolitico” all’epoca di grande successo, denominato Fronte dell’Uomo Qualunque (da cui è derivato il termine, a tutt’oggi usato, di “qualunquismo”).

Pallante, che non era restio a dare spiegazioni e a rilasciare interviste sui motivi del suo sciagurato gesto, disse di aver compiuto l’attentato «per salvare il Paese dal pericolo comunista», e ammise di essere stato animato da un «nazionalismo portato all’estremo»: riteneva che Togliatti fosse una pedina al servizio del dittatore sovietico Stalin, e pensò che l’unico modo per impedire l’ingresso dell’Italia nel blocco dei Paesi orientali fosse quello fermare brutalmente il leader del Pci, uccidendolo.

In realtà le indagini appurarono che l’attentatore non aveva alcun collegamento con movimenti eversivi, e che la pistola ed i proiettili utilizzati per compiere il crimine erano stati acquistati, usati, da un comune ricettatore, qualche giorno prima. Pallante aveva agito da solo, in maniera autonoma, senza il supporto di nessuna organizzazione. E l’arma e le pallottole non erano neppure di buona qualità (il che ha contribuito a non renderle mortali).

Il processo per l’attentato a Togliatti

Il processo per l’attentato a Palmiro Togliatti fu rapido ma si concluse con una pena molto blanda: solo cinque anni e tre mesi di reclusione per il reato di tentato omicidio. Pallante scontò interamente la pena e fu scarcerato nel 1953, grazie all’amnistia.

La condanna non prevedeva l’interdizione dai pubblici uffici, così Pallante, uscito di prigione, trovò impiego nel Corpo Forestale, in cui lavorava suo padre; poi transitò negli uffici della Regione, e infine fece l’amministratore condominiale. Non si occupò mai più di politica.

La morte di Pallante: segreti nella tomba?

Antonio Pallante é morto recentemente, nel 2022, a 98 anni di età, ripetendo sempre, nelle numerose interviste che ha rilasciato, di aver voluto compiere un «gesto patriottico, per vendicare tutti gli italiani uccisi dai partigiani».

Al di là della rivelazione del movente personale che lo aveva indotto ad agire, il killer non ha svelato altri particolari ma non ha portato segreti nella tomba: come detto, si era trattato di un gesto isolato e pianificato artigianalmente in modo tanto improvvisato quanto sciagurato. Venuta a galla questa semplice verità, le voci di complottismo alimentate all’epoca da varie forze politiche si sono rivelate del tutto infondate e sono morte molto prima di lui, anche grazie alla composta fermezza di Palmiro Togliatti, il quale non ha mai speculato sull’attentato che mise seriamente a rischio la sua vita.

 
Pubblicato : 20 Agosto 2023 06:00