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Tra gli whisky giapponesi ce n’è uno che è anche un po’ italiano

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(@eugenia-torelli)
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Quanto è importante che un prodotto abbia una forte identità territoriale? Da un punto di vista commerciale, più un prodotto è facile da identificare, più facile è da vendere e la connessione con un territorio famoso e ben riconoscibile può aiutare. L’Italia è un Paese in cui si fanno grandi sforzi per promuovere e difendere l’identità territoriale dei prodotti enogastronomici ed è giusto così, ci sono delle ragioni economiche per farlo. Eppure, tolta l’economia (e tolta anche la politica), che confini possono avere la cucina o le tradizioni agroalimentari? La stessa dieta mediterranea è difficile da delimitare, ne abbiamo parlato diverse volte, perché i cuochi viaggiano, viaggiano i produttori di vino, viaggia chi vende e viaggiano i prodotti. Con il risultato che ci si mescola e, fatto salvo il luogo in cui si viene al mondo – quello non lo si sceglie – si è tutti un po’ meticci.

Chiedetelo al whisky giapponese, da dove viene. È nipponico fin nel midollo, ma arriva da lontano, oltre il mare. Oppure giocate in casa, chiedetelo a un triestino di che nazionalità si sente. Ah quant’è bella Trieste, con quella luce intensa, i profili asburgici e tutte quelle parole balcaniche…

Non che una città di confine sia più bella di una città fortemente italiana, intendiamoci, come non è vero il contrario. Il punto è che a volte si scambia proprio l’identità con la provenienza, ma non sono la stessa cosa. Così un prodotto, mettiamo pure un distillato, può nascere in un luogo, ma essere il frutto di tante menti e culture diverse, che hanno viaggiato mescolandosi con la polvere e le idee di altri luoghi, facendo di questo la propria identità.

È il caso di Sasayaki, un whisky prodotto in Giappone, ma figlio di molte storie diverse (inclusi pezzi d’Italia), che vuole parlare un linguaggio comprensibile a tutti.

Dewa distillery

Del maiale non si butta via nulla
«Quando ti chiedono di dove sei, ti definisci un bastardo triestino. Trieste è un misto di razze ed etnie che in secoli di impero asburgico, quando la città è diventata il porto dell’impero, sono arrivate da tutta Europa». Sorride Vladimir Dukcevich, quando parla della sua città, come se quell’anima cosmopolita e vagabonda l’avesse fatta propria e come se in fondo, un viaggio dopo l’altro, nel parlare di lei parlasse un po’ anche di sé stesso.

La sua famiglia scappa dalla Croazia nel 1945. Il padre, il nonno e lo zio sono grossi commerciati di bestiame, foraggi, salumi e formaggi; poi il regime comunista nazionalizza le aziende e non c’è più spazio. «Mio padre fuggì. Arrivò a Trieste con dei passaporti falsi e una valigia piena di soldi in sterline e marchi, che poi si rivelarono tutti falsi e si ritrovò con una valigia di carta, una moglie e due figli da sfamare». Così si mette a fare salsiccia fresca e a venderla, poi cresce, si innamora del prosciutto di San Daniele, apre un’azienda nella cittadina e poi una bottega a Trieste, costruendo negli anni una realtà imprenditoriale molto importante qual è Principe, fino a guidare il Consorzio negli anni Novanta.

Vladimir cresce in questo settore e per oltre trent’anni produce e vende salumi in tutto il mondo, viaggiando per la metà del suo tempo. In Giappone ci va per la prima volta nel 1998 e il rapporto con il Paese del Sol Levante s’intensifica anno dopo anno. «Decisi di acquisire una quota dell’azienda del mio importatore Takayasu Ichioka, la TI Trading Company Limited, che importava e tutt’oggi importa prodotti enogastronomici italiani, tra cui vini e salumi». Un passo che si rivelerà importante anche in seguito, una volta che il lavoro nel mondo dei salumi si sarà interrotto.

Dal Giappone al Piemonte e ritorno, per vino, grappa e whisky
Souki Abe lavora a Tokyo in una società francese di brokeraggio. Si occupa di finanza ma, allo stesso tempo, si appassiona al mondo del vino. Stappa e assaggia, finché la curiosità non lo porta a voler approfondire il lato produttivo e fa il grande passo. Nel 2009 a Echizenhama, non lontano dal mare nella prefettura di Niigata, inizia a coltivare la vite e a produrre il proprio vino. Decide di chiamare l’azienda L’Escargot, perché il suo desiderio è quello di produrre in maniera lenta, senza fretta, un po’ come fanno le lumache che vivono tra le viti.

Dal vino, la passione presto si amplia verso il distillato e Souki arriva anche in Italia, dove diventa un assiduo frequentatore della distilleria piemontese Romano Levi di Neive. Ne studia l’arte, si perfeziona e ben presto inizia cimentarsi nella produzione di whisky. Funziona e, dopo una decina d’anni, Souki decide che è arrivato il momento di fare sul serio. A Ogumi, un paio d’ore d’auto a nord-est da L’Escargot, nella prefettura di Yamagata, si trova il luogo ideale. Uno splendido edificio in legno con ampie vetrate, alle porte del Parco Nazionale di Bandai Asahi. Qui, tra le foreste ai piedi delle montagne, fonda Dewa, la propria distilleria.

Bandai Asahi National Park

Un italiano, un giapponese e…
«Cinque anni fa Takayasu mi ha chiamato per dirmi che un amico aveva messo su una distilleria e gli aveva offerto la possibilità di sviluppare un whisky, solo che lui non sapeva come fare, quindi mi ha coinvolto», racconta Vladimir, che nel frattempo ha lasciato l’attività legata ai salumi e continua a occuparsi di commercio.

Appassionato di whisky, ma non così esperto da pensare di poter da solo immaginare un prodotto, decide di chiedere aiuto. «A raccontarla pare a tutti gli effetti una barzelletta, ma di fatto è quello che è successo. Ho chiamato due amici esperti di whisky, uno scozzese e un inglese, poi un americano esperto di packaging che arriva dal mondo del moonshine – la versione americana e non invecchiata del whiskey, ndr – e infine Barbara Orlando dell’enoteca Bischoff, il mio punto di riferimento sui distillati a Trieste, con una passione per tutto ciò che è nipponico».

Così Vladimir conosce Souki Abe, l’amico di Takayasu, e la squadra si mette all’opera, tra campioni, assaggi e confronti. «L’idea non era fare un whisky per esperti, ma un whisky che potesse accogliere anche i palati meno abituati al whisky».

Come sussurrare con le botti
Nasce così Sasayaki, che in giapponese significa sussurro. «Ci siamo concentrati su questo concetto perché, in un mondo in cui tutti urlano, volevamo qualcosa che fosse sussurrato, sia da un punto di vista comunicativo che di prodotto». Non c’era, in sostanza, la pretesa di dare un carattere incisivo al distillato, magari mettendo in evidenza alcuni tratti distintivi, come la torba, certe speziature o tostature, bensì la volontà di creare un prodotto morbido, facile da capire e bilanciato.

«Dato l’amore dei giapponesi per la precisione e l’equilibrio, non è stata difficile come richiesta, ma ci è voluto un po’ per trovare un risultato finale che mettesse d’accordo tutti». Il risultato consiste in un single malt whisky a 41 gradi alcol, invecchiato prima in botti di rovere americano e poi, per un periodo tra i sei mesi e un anno, in botti di mizunara, un particolare tipo di rovere locale. «Una volta definito il metodo produttivo, abbiamo acquistato circa settanta botti di mizunara e siamo partiti». Un investimento importante, dato che il legno di mizunara è molto difficile da lavorare e questo influisce sul costo delle botti.

Dopo essere uscito sul mercato lo scorso anno, Sasayaki è oggi distribuito in diversi Paesi tra cui l’Italia. Un po’ come tornare a casa, anche se è nato lontano, oltre il mare.

Vladimir Dukcevich e Takayasu Ichioka alla distilleria Dewa

 
Pubblicato : 9 Agosto 2024 04:50