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Per capire l’evoluzione americana bisogna guardare gli stati dell’ovest

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(@marco-bardazzi)
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L’immigrazione resta il tema chiave di tutto l’esperimento americano. Ma per comprendere cosa significa oggi non ha più senso andare nell’East Side di Manhattan: le case povere di Gershwin e Berlin ormai sono appartamenti di lusso. Serve a poco anche affacciarsi nella Hoboken di Frank Sinatra, e pure Ellis Island, là di fronte nella baia, è solo un museo che racconta un mondo di immigrazione via nave, lontano nel tempo. La popolazione multietnica di Jackson Heights a sua volta trae in inganno, perché è composta da gente che quasi sempre è arrivata negli USA in aereo e con i documenti in regola.

Per capire l’immigrazione del XXI secolo dobbiamo lasciare New York e spostarci dall’altra parte del Paese. Andiamo a Phoenix, in Arizona, ma usciamo subito da quella che sta diventando una metropoli in rapida espansione. Dobbiamo invece viaggiare in mezzo al nulla punteggiato dai cactus della Route 85 e dirigerci a sud, verso il confine con il Messico.

Quel poco di vita e di presenza umana che si trova da queste parti finisce a un incrocio, dove sorge un luogo con un nome che potrebbe evocare chissà quali interrogativi esistenziali: Why.

[…] Si tratta di una comunità minuscola, 167 abitanti all’ultimo censimento. Non c’è un numero minimo di persone necessario negli USA per essere considerati una località a tutti gli effetti, di solito ciò che conta è avere un codice postale e figurare sulle mappe dei distretti elettorali. Se da Phoenix fossimo andati a est, per esempio, entrando nei vecchi territori degli Apache e in direzione delle Superstition Mountains (un nome legato alle leggende della zona e a molti cercatori d’oro scomparsi), a un certo punto ci saremmo imbattuti in Tortilla Flat. Un posto che compare sulle mappe, ma consiste più o meno in un solo saloon amato dai motociclisti con le Harley-Davidson. Popolazione: sei persone. La comunità più piccola in America con un proprio codice postale. […]

Di fronte ai cartelli stradali di Why (che in inglese significa «perché») si ha un momento di esitazione, immaginando chissà quali storie e riflessioni ci siano dietro. Per poi scoprire che la località era sorta come gruppo di case su un’intersezione a forma di Y tra due strade statali. Gli abitanti del posto volevano chiamare il loro villaggio così, Y, ma se le autorità americane non mettono un limite minimo alla popolazione di una località registrata sulle mappe, ne mettono uno al numero di lettere necessarie: devono essere almeno tre. E, visto che in inglese «Y» si pronuncia come «Why», ecco il significato per niente metafisico di questo posto in mezzo al niente in Arizona.

Eppure di «perché» ne nascono tanti, se da Why si procede a sud e si entra nel parco Organ Pipe Cactus National Monument, un’area protetta nel deserto di Sonora al confine con il Messico che sembra uscita da un libro di Cormac McCarthy. La Route 85 prosegue attraverso il parco e conduce fino a Lukeville e a uno dei tanti punti di frontiera gestiti dai federali dello U.S. Customs and Border Protection. Al di là del confine c’è Sonoyta, e da qui parte ogni giorno una lunga coda di auto di messicani che attendono pazienti, documenti alla mano, di entrare negli USA, ingannando il tempo con i tacos e le tortillas dei venditori di Hombres Blancos, l’ultima frazione messicana prima del confine con gli Stati Uniti.

Le auto in coda sono però solo una parte della storia, quella che avviene di giorno. Di notte, invece, sul lato messicano si muovono vetture e furgoncini che viaggiano lontano da Sonoyta e percorrono le strade sterrate che affiancano per centinaia di chilometri le barriere anti-immigrazione e il filo spinato messi a protezione del parco Organ Pipe. Sono i veicoli dei trafficanti di uomini, che scaricano famiglie senza documenti in arrivo da tutta l’America Latina e le mandano allo sbaraglio nel deserto.

Quello che rischiano gli immigrati clandestini lo sanno bene i volontari dell’organizzazione Armadillos Search and Rescue, fondata di là dal confine, negli USA, da un gruppo di ex migranti che «ce l’hanno fatta». Ad Armadillos spetta un compito ingrato: la ricerca dei cadaveri nel deserto, per dare risposte ai familiari di persone di cui si è persa ogni traccia. Il team di volontari setaccia zone sperdute e disabitate del parco Organ Pipe, dove in tanti provano l’attraversamento del confine e spesso soccombono al caldo, alla disidratazione, al disorientamento in mezzo ai cactus. I volontari raccolgono i dati disponibili, poi si avventurano nel deserto, e molto spesso sono loro a scoprire e recuperare i cadaveri.

Nel 2022 i morti registrati lungo il confine dal Missing Migrants Project, che tiene il triste conteggio, sono stati 668, ma è probabile che la cifra reale sia molto più alta. Nel corso dello stesso anno, due milioni di persone senza documenti e senza diritti risultano entrate negli Stati Uniti attraverso il deserto e i confini meno protetti in Texas, Arizona, New Mexico o California. Un gran numero di loro è stato rispedito indietro, un altro gran numero è probabilmente entrato restando sotto il radar, e un altro gran numero è costituito dai morti. Sono tutti «grandi numeri» difficili da calcolare, perché lungo il confine messicano tutto avviene attraverso canali clandestini e la situazione resta disperata. Lo è da decenni, senza che si sia trovata ancora una soluzione. Quel lungo confine è la nuova Ellis Island, è la tragica porta d’accesso all’America su cui si gioca il futuro del Paese.

Gli USA sono fatti di immigrati e da sempre cercano di gestire come possono l’immigrazione. Lo U.S. Customs and Border Protection è stato istituito con l’Immigration Act del 1924 e in un secolo i suoi funzionari e agenti hanno dovuto adeguarsi alle indicazioni spesso oscillanti e contraddittorie arrivate da Washington. C’è stata la chiusura degli anni Venti, specialmente nei confronti degli europei, poi una maggiore apertura e accoglienza nel secondo dopoguerra.

La grande svolta è arrivata con la riforma dell’immigrazione del 1965, nota come Hart-Celler Act, voluta e attuata dal presidente democratico Lyndon B. Johnson. La riforma abolì la cosiddetta National Origins Formula, il meccanismo delle quote introdotto nel 1921 che per decenni aveva ristretto l’accesso agli USA, favorendo – secondo i critici – le popolazioni che venivano ritenute più «anglosassoni» e accettabili, a danno per esempio di quelle del Sud Europa (italiani e greci in testa) o di quelle asiatiche.
L’Hart-Celler Act ha cambiato profondamente il volto dell’America contemporanea, privilegiando tra l’altro i ricongiungimenti di chi ha già familiari che risiedono negli USA e modificando il mix etnico del Paese con forti arrivi dall’Asia, dall’Africa e dall’America Latina. Negli anni successivi alla riforma, è stato soprattutto il flusso degli immigrati dal Sud a diventare imponente, facendo del confine con il Messico il vero punto caldo di tutta la gestione dei migranti.

I latinos, in particolare messicani, sono diventati nel 1990 i principali protagonisti del fenomeno dell’immigrazione, raggiungendo nel 2019 una quota pari al 6,5% della popolazione americana. Un movimento di uomini e donne pari a quello delle grandi migrazioni a cavallo tra XIX e XX secolo, quando irlandesi e tedeschi divennero il 4-5% della popolazione del Paese.

Dall’inizio di questo secolo, le amministrazioni Bush, Obama, Trump e Biden, e i relativi Congressi, hanno provato più volte a trovare una quadra e un accordo bipartisan per gestire l’immigrazione, ma fino a oggi nessuno ci è riuscito.

© 2023 BUR Rizzoli

Tratto da “Rapsodia americana. Viaggio nel cuore profondo degli Stati Uniti per capire il Paese che determina (ancora?) i destini del mondo”, di Marco Bardazzi, pp. 228, euro 16.00, BUR Rizzoli

Il libro sarà presentato nell’ambito di Bookcity, giovedì 16 novembre alle 18.30 alla Libreria Rizzoli di Galleria Vittorio Emanuele II, in dialogo con il direttore de Linkiesta Christian Rocca e Paola Peduzzi.

 
Pubblicato : 16 Novembre 2023 05:45