Nella prima giornata del Consiglio europeo l’Italia ottiene un pugno di flessibilità sui conti
C’è chi lo chiama il bazar ungherese. La fiera che vede i leader Ue, trainati da Viktor Orbán e dalla sua raffica di veti, mercanteggiare sulla revisione delle poste del bilancio comune fino al 2027. Disinnescata a sorpresa, e con un espediente formale, la mina ungherese sul sentiero dell’allargamento dell’Unione all’Ucraina (e alla Moldova), i leader dei Ventisette riuniti al summit sono tornati a capofitto su un altro dossier altrettanto, se non più, spinoso: la revisione del quadro finanziario pluriennale che stanzia le risorse per le attività dell’Ue su un arco di sette anni. Quello, cioè, deciso (all’unanimità, come tutto ciò che conta) nel dicembre 2020, dopo aver sventate le classiche minacce di stop di Ungheria e, all’epoca, Polonia, fautrici dello sfrontato approccio “Bancomat” all’Europa.
«L’accordo sulla revisione del bilancio Ue è stato sostenuto da ventisei leader ma un altro leader non lo ha fatto, torneremo dunque sulla questione all’inizio del prossimo anno e tenteremo di trovare l’unanimità», ha sintetizzato alla fine della prima giornata il presidente del Consiglio europeo Charles Michel. Stavolta, però, oltre alla contrarietà del solito premier autoritario di Budapest, bisogna fare i conti con un pattern familiare nelle trattative economiche che, dopo la tregua rappresentata da NextGenerationEu e dalla messa in comune di debito e risorse, polarizza il braccio di ferro nell’Ue: quello che oppone falchi a colombe, frugali a mediterranei.
L’antefatto vede sul tavolo la richiesta di un incremento di sessantasei miliardi di euro per il budget unitario presentata dalla Commissione a giugno, quando Bruxelles ha bussato alla porta dei governi per battere cassa su quattro dossier (Ucraina, migranti e vicinato, innovazione industriale e cuscinetto per l’aumento dei tassi d’interesse). Ricevendo in risposta una doccia fredda dalle capitali, fino a vedere la propria proposta ridotta ad appena ventuno miliardi.
È questa è l’ultima cifra di fresh money contenuta nella cosiddetta negobox predisposta dalla squadra del presidente del Consiglio europeo Charles Michel e circolata poco dopo l’ora di cena qui a Bruxelles. Si tratta di un taglio di un miliardo e mezzo rispetto alla cifra (22,5) ipotizzata ancora mercoledì; una nuova sforbiciata per accontentare i frugali che proprio non ne vogliono sapere di metter mano al portafoglio. E semmai chiedono, venendo largamente accontentati, di optare per riallocazioni interne delle poste di bilancio esistenti nella forsennata ricerca di nuovi fondi per le priorità strategiche Ue: l’Ucraina, ma pure i finanziamenti per i partenariati con i Paesi terzi (un punto caro all’agenda Meloni) sui flussi migratori e quel poco che rimane della piattaforma Step, l’iniziativa destinata a tirare la volata a un futuro Fondo sovrano per l’industria, oggi diventata un mini-meccanismo tecnico per rivendicare flessibilità nell’impiego dei fondi Ue.
È con questa tattica che prosegue la trattativa notturna alla ricerca di nuovi margini di bilancio, nel plenum come in incontri ristretti, fino agli approfondimenti laterali affidati agli sherpa.
Nessuno, a parte Orbán, mette in discussione i diciassette miliardi di sovvenzioni previsti dalla Commissione, queste sì tutte risorse fresche (gli altri trentatré per giungere al totale promesso di cinquanta sono prestiti, e pertanto si collocano fuori dalla procedura di revisione del bilancio). La permanenza del no ungherese ha rilanciato il lavoro sull’opzione B, cioè la creazione di un fondo extra-bilancio di macroassistenza finanziaria per Kyjiv con chi ci sta. E quindi con ventisei, anziché ventisette; ma qui sta il paradosso, perché Budapest, alla fine, potrebbe persino dire sì a uno strumento fuori dal quadro finanziario pluriennale (e privo delle sue garanzie).
Roma ha, sin dall’inizio, rivendicato il pieno sostegno alla ricca revisione del budget avanzata dall’esecutivo Ue, ma, a porte chiuse, in pochi tra Tesoro e palazzo Chigi si sono mostrati davvero fan di un’ipotesi che, a regime, si sarebbe tradotta in uno sforzo contributivo maggiorato di quasi due miliardi all’anno per il nostro Paese. Meglio, allora, lasciar fare i frugali, che con le forbici ci sanno fare. Su migrazione e partenariati, la trattativa notturna vede lievemente al rialzo il capitolo dedicato, adesso a 9,6 miliardi; su “Step”, il motto è che i soldi non sono tutto, e pertanto anche una flessibilità normativa che consenta di impiegare generosamente i fondi della coesione esistenti a favore delle imprese e senza il necessario cofinanziamento nazionale può andar bene.
Sullo sfondo (e solo sullo sfondo) si staglia l’ultimo tornante del negoziato sul futuro Patto di stabilità e crescita. Evocato, a torto o a ragione, dopo che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni è stata colta in castagna e immortalata in foto con il presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz durante un drink notturno all’Hotel Amigo, l’albergo a due passi dalla Grand Place tradizionalmente ospita i tre leader.
Il nuovissimo bar dedicato a Magritte, di cui quest’anno ricorrono i centoventicinque anni dalla nascita, non è la cornice romantica del treno notturno per Kyjiv ma insomma: chi di scatto ferisce (l’ex presidente del Consiglio Mario Draghi), di scatto perisce. La disciplina Ue sui conti pubblici – uno dei papabili temi dello scambio a tre – non è inserita come punto all’ordine del giorno dell’agenda di lavori di un summit già abbastanza denso, né tantomeno lo è la ratifica del trattato di riforma del Meccanismo europeo di stabilità, l’ex fondo salva-Stati divenuto nel frattempo fondo salva-banche, da parte dell’Italia.
Con le trattative arrivate a un punto di svolta, e l’Ecofin destinato a mettere il sigillo appena calendarizzato in mercoledì 20 dicembre, il tema rimane saldamente nelle mani dei ministri delle Finanze e non è destinato a fare il salto di qualità nella sala multicolore dell’Europa Building.
Dopotutto, il governo italiano, con i frequenti richiami agli ultimi aspetti da perfezionare (e al proiettile del veto destinato a rimanere in canna), sta preparando il terreno per rivendicare un nuovo successo negoziale in Europa, benché la trattativa sul Patto, vista da Bruxelles, racconti un’altra storia: e cioè un successo su tutta la linea dei frugali, che hanno ottenuto paletti fermi sul rientro del debito e sulla riduzione del deficit, accompagnati qua e là da qualche bonaria e sporadica concessione ai Paesi con i conti in disordine. Non solo Italia, beninteso, ma anche i cugini francesi, ora che la compagnia greca è svanita perché Atene ha fatto una cura da cavallo per risanare i propri bilanci e vede, nelle proiezioni Ue, il suo deficit in stabile declino.
Che l’Ecofin si tenga in videoconferenza è un segnala abbastanza inequivocabile, secondo le liturgie Ue interpretate a Bruxelles, che l’accordo ormai c’è, e mancano semmai poche limature. L’Italia ha rivendicato come un successo la timida apertura raggiunta, una settimana fa, nel compromesso messo a punto dalla presidenza di turno spagnola del Consiglio: una proposta negoziata a due sull’asse Parigi-Berlino, prima di venir condivisa a notte fonda con Roma per sventare ogni sorta di boicottaggio tricolore.
Il punto di caduta consiste in uno sconto transitorio dell’aumento degli interessi sul debito per investimenti strategici decurtato, nel solo triennio 2025/2027 (ma i frugali vorrebbero limitarlo a due), dalla definizione degli aggiustamenti di bilancio strutturali pari allo 0,5 per cento richiesti ai Paesi sotto procedura per disavanzo eccessivo. Insomma, una pacca di incoraggiamento sulla spalla (e tanti auguri) per un Paese che sognava una golden rule per mettere in salvo tutti gli investimenti dalle rigide maglie del Patto. E si ritrova con un pugno di flessibilità.
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