L’ultimo complotto delle perfide élite progressiste
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Molte nuove e assurde combinazioni politico-ideologiche sono nate, più o meno spontaneamente, dal gran vortice che negli anni Dieci del Duemila ha generato lo tsunami del populismo globale, per l’effetto combinato prodotto da crisi economica e sviluppo dei social network, migrazioni e terrorismo, movimenti estremisti locali e agenti internazionali della destabilizzazione. Una ristrutturazione ideale e organizzativa che ha riguardato anzitutto la destra radicale, che si è rifondata sul rifiuto della razionalità e del principio di non contraddizione, sul cospirazionismo e sulla diffidenza nei confronti della scienza. Una mutazione anche antropologica che ha raggiunto il suo culmine, d’intensità e di capacità di espansione, nel 2020, con l’esplosione della pandemia. E si capisce: cosa poteva esserci di meglio, per un movimento globale fondato sul cospirazionismo?
Curiosamente, la nuova destra globale, che si caratterizza anzitutto come anti-globalista, è insieme causa e conseguenza di questo grande processo di globalizzazione della politica. In nome dell’etnonazionalismo, del cospirazionismo, del tradizionalismo, della lotta contro l’establishment cosmopolita, ha uniformato più che mai il dibattito politico interno in tutto il mondo, creando al tempo stesso nuove divisioni e nuovi discrimini.
Una delle novità più significative, da questo punto di vista, mi pare la narrazione che unisce la mitizzazione degli agricoltori alla demonizzazione dell’ambientalismo, l’adesione acritica al cento per cento delle richieste e delle rivendicazioni dei trattori e la lotta senza quartiere al green deal, così come, di fatto, a qualunque politica volta a limitare l’inquinamento e preservare l’ambiente naturale, specialmente se proveniente dall’Unione europea.
L’ultimo complotto delle élite progressiste schiave della grande finanza, dopo la sostituzione etnica, è chiaramente la sostituzione del diesel, l’attacco proditorio alle nostre auto, alle nostre vecchie stufette, alle sane griglie a gasolio attorno alle quali la famiglia tradizionale si ritrova e si unisce in difesa dei suoi valori.
Se ci si pensa un momento, tuttavia, è piuttosto singolare questa contrapposizione tra agricoltura e natura, e anche tra destra tradizionalista e conservazione dell’ambiente.
In passato i movimenti populisti, a destra come a sinistra, hanno avuto spesso posizioni convintamente ambientaliste, anche in chiave anti-sviluppista e antiindustriale, favorevoli alla decrescita felice. Ma sembra proprio acqua passata, almeno dai tempi dei gilet gialli, che in fondo sono stati il primo tentativo di saldare un nuovo blocco sociale che andasse dai tir ai trattori, dai pendolari agli ultrà, dietro la bandiera della libertà di inquinare.
In questa gran confusione di passatismo e modernità, non è difficile tuttavia scorgere il tratto comune che lega il negazionismo sui vaccini a quello sul cambiamento climatico, in un delirio paranoide spinto (anche dall’esterno) ben oltre la soglia dell’autolesionismo, che si sposa perfettamente con la paradossale propaganda anti-totalitaria e antiautoritaria degli stessi movimenti neofascisti, pronti a denunciare ovunque dittature sanitarie e regimi euro-ambientalisti, con la stessa coerenza con cui ultratradizionalisti cattolici che vorrebbero piegare le leggi dello Stato ai dettami della chiesa chiedono ogni giorno ai musulmani nuove prove di laicità e ne denunciano continuamente il rifiuto dei valori illuministi (tutte ragioni per cui dovrebbero semmai riconoscerli come loro simili).
A dare ulteriore impulso a questa nuova pseudo-ideologia è arrivata poi la guerra di Vladimir Putin, con le sue conseguenze sull’inflazione e in particolare sul prezzo dell’energia, per non parlare della questione del grano ucraino, che spinge alla sollevazione gli agricoltori persino in Polonia, il Paese, per ovvie ragioni storiche e geografiche, meno filo-putiniano d’Europa.
Come aveva scritto Roger Cohen sul New York Times del 31 marzo, «i partiti di estrema destra in ascesa in tutto il continente hanno colto questa rabbia tre mesi prima delle elezioni del Parlamento europeo. Lo descrivono come un altro esempio dello scontro tra élite arroganti e popolo, globalisti delle città e agricoltori legati alle proprie radici. Il loro messaggio è che la campagna è la custode delle tradizioni nazionali assediate dalla modernità, dal politicamente corretto e dall’immigrazione, oltre che da un groviglio di norme ambientali che, a loro avviso, sfidano il buon senso».
In Francia, Marine Le Pen sostiene che il vero esilio «non consiste nell’essere banditi dal proprio Paese, ma nel viverci e non riconoscerlo più». Il suo giovane numero due, Jordan Bardella, parla di «ecologia punitiva». In Germania Stefan Hartung, membro di Die Heimat (La Patria), un partito neonazista, a gennaio è intervenuto durante una protesta di contadini e ha denunciato i politici di Bruxelles e Berlino che esercitano il controllo sulle persone «imponendo cose come l’ideologia climatica, la follia di genere e tutte quelle sciocchezze».
E poi c’è l’Italia, naturalmente, con la gara tra la Lega di Matteo Salvini e i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, nonché dell’ineffabile ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, decisi a contendersi i favori della Coldiretti, dei trattori, dei forconi e di qualunque altro possibile rappresentante del piccolo mondo antico in cui vorrebbero rinchiuderci.
Evitare estremismi ideologici di segno opposto, riconoscere le giuste esigenze e i legittimi interessi delle categorie colpite dalla cosiddetta transizione ecologica è ovviamente consigliabile, a sinistra, se non si vuole perdere la partita prima ancora di cominciarla. Ma a giudicare dalla ritirata dell’Unione europea davanti ai trattori, praticamente su tutta la linea, l’impressione è che la forza e la potenziale egemonia di questa nuova narrazione, che in altri tempi si sarebbe forse definita semplicemente reazionaria, vadano molto oltre le questioni concrete risolvibili con buone norme e un po’ di buon senso nell’applicarle.
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