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L’Italia snobba il riciclaggio dei rifiuti hi-tech (e rischia di pentirsene)

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(@stefano-carli)
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Smartphone e smartwatch, tv e radio, decoder, tablet e pc, videocamere e impianti stereo, sensori, modem e router, tutta l’elettronica di frigoriferi, lavatrici, lavastoviglie, friggitrici, frullatori, estrattori, boiler, trapani, avvitatori, fon, rasoi, spazzolini elettrici, forni a microonde, fornelli a induzione, diffusori di aria calda e fredda. Quando e finché funzionano sono la tecnologia che rende le nostre vite più facili, piacevoli e piene di comunicazione con gli altri, che ci fa risparmiare tempo e ci risolve problemi (e talvolta ne crea). Quando smettono di funzionare possono diventare due cose: semplici rifiuti oppure “miniere urbane”.

In Italia abbiamo scelto la prima: li lasciamo nelle discariche, in parte – piccola – vengono recuperati e la maggior parte di questo recupero, lo esportiamo all’estero. L’Europa sta cercando di spingerci verso la seconda, ma siamo molto in ritardo. Qui, a differenza di quanto avviene con carta e vetro, plastica e alluminio, dove siamo già oltre gli obiettivi europei per il 2030 e il 2050, non siamo ancora arrivati neanche e metà strada. E, quel che è peggio, ci stiamo rimettendo soldi e ci stiamo giocando un pezzo di futuro.

La definizione di miniere urbane è appropriata perché anche in questo caso bisogna andare a scavare dentro i prodotti per estrarre il loro cuore prezioso fatto di metalli nobili e soprattutto delle cosiddette “terre rare”, ossia le materie prime del futuro, senza le quali la transizione energetica con l’addio alle fonti fossili e l’utilizzo di energie rinnovabili prodotte a partire da fattori naturali come sole, vento e acqua, non si possono fare.

Partiamo dal più semplice: oro e argento. Uno studio targato Onu vecchio ormai di dieci anni stima che il mondo produce (produceva allora) tra i venti ei cinquanta milioni di tonnellate di rifiuti hi-tech. E calcolava che contenessero trecentoventi tonnellate di oro e settemiladuecento tonnellate di argento, per un valore stimato oltre i venti miliardi di dollari.

Se ne estraeva, con le tecnologie di dieci anni fa, non più del dieci per cento. Poi le tecnologie sono avanzate, è arrivato il boom delle energie rinnovabili e quindi pannelli solari, pale eoliche e i motori della nuova mobilità elettrica. Che hanno bisogno del nuovo oro di questo millennio: le “materie prime critiche”, Mpc sui documenti italiani, Crm, Critical Raw Materials, per gli anglofoni. Sono una trentina, ma crescono perché le tecnologie evolvono e scopro nuove esigenze. Tanto che l’Unione europea ne aggiorna annualmente l’elenco: erano trenta l’anno scorso, sono già diventate trentaquattro. Alcune hanno nomi strani ma perché mai sentiti prima: tantalio, niobio, bismuto; con altre siamo già più familiari: litio, cobalto, gallio. E di questi fanno parte le diciassette “terre rare”: metalli dai nomi impossibili – ittirio, cerio, promezio, samario – a metà tra Topolino e gli scaffali Ikea.

In Europa il loro problema principale è l’estrazione: ne abbiamo poche e quelle poche di difficile estrazione perché bisognerebbe aprire miniere e scavare il suolo, con tutto quello che comporta dal punto di vista ambientale. Di fatto l’Unione europea è un grande importatore di Mpc. E come per l’energia fossile, sono importazioni che provengono da Paesi tutt’altro che tranquilli dal punto di vista geopolitico. Il cinquantasei per cento della domanda europea è coperta dalla Cina, come ha rilevato un recente studio Ambrosetti, ma è dalla Turchia che proviene il novantotto per cento dei borati, mentre il settantuno per cento del fabbisogno europeo di platino, iridio, rutenio e radio viene dal Sud Africa. Il settantotto per cento del litio dal Cile.

Non è un problema solo europeo: la Cina fornisce il novanta per cento delle terre rare utilizzate dall’industria a livello mondiale. Senza contare la guerra russo-ucraina. La Russia produce tredici Mpc sulle trentaquattro totali. L’Ucraina è tra i maggiori fornitori europei di titanio, utilizzato in particolare dall’industria aerospaziale Il peso di tutto questo sui piani della doppia transizione europea, quella digitale e quella energetica è evidente. Si stima che di qui al 2040 la domanda di rame e palladio si moltiplicherà per undici volte, quella di litio, componente fondamentale delle batterie e dei sistemi di accumulo, almeno quaranta volte il livello attuale. E c’è già chi prevede che presto i maggiori paesi produttori di Mpc, Cina, Russia, Congo, Sud Africa, possano dar vita alla versione XXI secolo dell’Opec: un’analisi del centro studi dell’Allianz, il maggior gruppo assicurativo europeo, l’ha già battezzata Omec, Organization of Metal Exporting Countries.

Per questo l’Unione europea si è data obiettivi ambiziosi, in grado di diminuire radicalmente la dipendenza dell’economia dell’Unione dalle importazioni di Mpc. Con il Critical Raw Materals Act ha fissato che al 2030 l’autoproduzione europea di tali materie prime arrivi al dieci per cento, la capacità produttiva europea sia almeno del quaranta per cento e che il livello di materia prima critiche secondarie, ossia provenienti dal riciclo, siano al quindici per cento. E che comunque per le importazioni, non si possa dipendere da un solo paese oltre il sessantacinque per cento. Quindi bisogna correre sul riciclo dei rifiuti hi-tech. E qui arrivano i ritardi italiani.

Oggi l’Unione europea ha una media di dieci chili procapite di rifiuti elettronici, l’Italia è a quota sei chili. Il tasso di riciclo dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee), in Italia è al trentaquattro per cento, tra i più bassi d’Europa. E nel 2022 è addirittura sceso. «In Italia le materie prima critiche pesano seicento miliardi, il novantanove per cento le importiamo dall’estero, il sessantacinque per cento dalla Cina», dice Roberto Morabito Direttore del Dipartimento Sostenibilità dei Sistemi Produttivi e Territoriali dell’Enea. «Se già solo raggiungessimo l’obiettivo Ue del sessantacinque per cento, rispetto all’attuale trentaquattro per cento, e soprattutto se avessimo gli impianti per l’estrazione e il riciclo delle Mpc secondarie, il nostro import dalla Cina calerebbe del venticinque per cento e l’impatto sul nostro Pil dell’insieme di questa manovra varrebbe cento miliardi di euro l’anno».

I problemi sono quindi due. Non solo la raccolta, ma anche, e forse prima ancora, la mancanza di impianti di trattamento dei rifiuti hi-tech. Tanto che i due terzi dei Raee raccolti in Italia prende poi la strada del Belgio e della Germania, dove ci sono appunto gli impianti per il loro trattamento, da cui vengono ricavati oro e argento. Poi c’è la gran parte, che sfugge al sistema virtuoso del riciclo e che finisce perlopiù in Africa. Insomma, i Raee sono oggi per l’Italia in primo luogo un costo. Poterebbero diventare una grande opportunità, ma bisogna investirci. La novità è che gli investimenti non sono nemmeno altissimi. Spiega Morabito: “Una tonnellata di schede elettroniche contiene Mpc del valore di 12.000 euro. E viaggiamo su centinaia di migliaia di tonnellate. Un impianto con una capacità di trattare mille tonnellate l’anno di Raee ha un costo di realizzazione sui 6-7 milioni di euro, ma potrebbe produrre Mpc seconde per 12 milioni l’anno. Avrebbe tempi di ammortamento velocissimi”.

C’è infine la questione del salto di qualità tecnologico. La Germania, come anche il Belgio, hanno impianti con una tecnologia vecchia, sono praticamente degli altiforni che lavorano ad 800 gradi: dai Raee trattati ricavano oro e argento ma tutte le Mpc, comprese le terre rare, vengono invece distrutte dalle alte temperature.

Le nuove tecnologie di trattamento dei rifiuti hi-tech ci sono. Sono tecnologie di nuova generazione ma già pronte per l’utilizzo industriale. E si sarebbero potuti utilizzare i fondi del Pnrr per accelerare la realizzazione di nuovi impianti. Ma non è andata così. «In Italia – afferma Morabito – nell’ambito di un recente bando del ministero per l’Ambiente e la Sicurezza Energetica per progetti “faro” di economia circolare relativo ad impianti per raccolta, logistica e riciclo dei Raee, sono stati presentati settantatré diversi progetti. Ne sono stati finanziati sessantasette ma di questi solo sette riguardano la realizzazione di nuovi impianti di recupero di Mpc. Tutto il resto riguarda impianti meccanici di disassemblaggio, volti a recuperare materie prime più tradizionali, come ferro e vetro. C’è un solo progetto per le terre rare, uno per il cobalto e uno per recuperare rame e silicio dai pannelli solari dismessi. Il fatto è che i bandi sono scritti sui parametri dei vecchi impianti. E in grande maggioranza si presentano progetti poco o per nulla innovativi».

 
Pubblicato : 7 Novembre 2023 05:45