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L’Europa non è (ancora) riuscita a costruire un destino comune

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(@goran-rosenberg)
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Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine, con gli articoli di World Review del New York Times. Si può comprare già adesso, qui sullo store, con spese di spedizione incluse. E dal 17 novembre anche in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia

Un progetto di Voxeurop in collaborazione con Eurozine indaga attraverso sei saggi il futuro dell’Europa, rileggendo alla luce del conflitto scatenato dall’invasione russa dell’Ucraina uno storico intervento del 2003 di Jürgen Habermas e Jacques Derrida. Qui si può leggere il primo intervento,qui il secondo, qui il terzo, qui il quarto

L’Unione europea è il prodotto di guerre: di due guerre mondiali che hanno quasi messo fine all’Europa come la conosciamo, della Guerra fredda che sembra aver calato una cortina di ferro che divide ancora il continente e di un’esperienza quasi mortale per l’Europa in quanto idea. Perché, più di ogni altra cosa, l’Europa è un’idea: l’idea nella quale molte persone, con lingue e culture diverse, affollate su una penisola irregolare all’estremità occidentale del continente asiatico, condividono una casa e un destino comune. Questa molteplicità culturale non è una caratteristica recente dell’Europa, quanto piuttosto la sua situazione geopolitica e, allo stesso tempo, la sua sfida. Questo significa che l’Europa ha un problema con sé stessa, poiché i suoi abitanti non sono ancora riusciti a condividere né una casa comune né un destino comune. Molte persone hanno creato la loro casa in Europa, a volte sulle rovine di quelle degli altri, ma l’Europa in sé non è riuscita a diventare casa per nessuno.

L’Unione europea è rimasta un progetto in cui solo i Paesi costituenti sono stati in grado di ottenere il senso di appartenenza e fedeltà associato alla nozione di “casa”. Questo si è visto quando il Regno Unito è uscito dall’Unione, sbattendo la porta e suscitando richieste di ulteriori uscite dall’Ue, Swexit, Italexit, Öxit, eccetera. O, come ha recentemente dichiarato l’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer: «L’Europa si trova in una regione sempre più pericolosa, eppure rimane una confederazione di Stati nazionali sovrani che non hanno mai messo insieme la volontà di raggiungere una vera integrazione, anche dopo due Guerre mondiali e la Guerra fredda. In un mondo dominato da grandi Stati con bilanci militari in crescita, l’Europa non è ancora una vera potenza».

Quindi era forse ora che alle tante nazioni che formano l’Europa venissero ricordate le condizioni geopolitiche per la loro indipendenza e sicurezza. Ciò è avvenuto la mattina del 24 febbraio 2022, quando la Russia di Vladimir Putin ha lanciato la sua immotivata guerra di aggressione, non solo contro l’Ucraina, ma anche contro l’ordine di sicurezza che le nazioni europee, sia quelle che appartengono alla Nato sia quelle che non ne fanno parte, davano per scontato.

Stati Nazione disparati (e disperati)
Da quel momento, nulla può essere dato per scontato. I tempi sono cambiati, come ha dichiarato il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, tre giorni dopo il pesante attacco a Kyjiv. Ancora una volta, alle nazioni europee è stato brutalmente ricordato che se non possono mantenere, e se necessario difendere, ciò che hanno in comune, potrebbero ritrovarsi senza più niente da condividere. E, di nuovo, l’Europa diventerebbe un insieme di Stati nazionali disparati, ciascuno troppo piccolo e debole per affermarsi in un mondo in cui la forza vince: questo è il mondo che si aprirebbe in caso di vittoria di Putin.

Certamente, l’Unione europea ha le sue debolezze e i suoi difetti, e soffre di un deficit di democrazia, ma è di gran lunga il tentativo più democratico di costruire una comune struttura politica da parte di molte delle nazioni della penisola europea. Senza una struttura politica comune europea, come sostenevano gli ideatori e architetti originali del progetto, si sarebbe aperta nuovamente una strada verso il conflitto, la guerra e l’autodistruzione. La loro strategia era quella di preparare il terreno, partendo da una comunità economica per poi arrivare, citando le parole del Trattato di Roma del 1957, a «porre le basi di un’unione sempre più stretta tra i popoli d’Europa».

All’inizio questa strategia è stata così efficace che tante nazioni hanno progressivamente voluto far parte di questa unione ed è stato quindi molto facile dimenticare quanto essa fosse anche fragile e vulnerabile: vulnerabile al dissenso nazionalista presente al suo interno e vulnerabile alle pressioni divisive provenienti dall’esterno. E vulnerabile anche, come si sarebbe scoperto più tardi, a causa della sua dipendenza in tema di sicurezza dagli Stati Uniti, che potrebbero ancora una volta eleggere un presidente pronto a rompere l’Alleanza transatlantica e a lasciare gli europei a difendersi da soli.

Da questo punto di vista, la reazione istantanea e viscerale dell’Europa all’attacco russo ha fatto ben pensare. L’impegno per la causa dell’Ucraina è stato profondo e ampio, così come la disponibilità a sopportare le potenzialmente dure conseguenze della chiusura dei rubinetti del petrolio e del gas russi. La decisione immediata di Svezia e Finlandia di richiedere l’adesione alla Nato è stata invece una drammatica inversione di posizioni mantenute a lungo.

Habermas, Derrida e la debolezza intrinseca della Europa
È vero che il monito di Vladimir Putin non ha portato immediatamente a riaprire il dibattito su come rafforzare l’Unione europea, ma è anche vero che i partiti e i movimenti apertamente anti-Ue (in Svezia e in Italia, ad esempio) hanno iniziato a rivedere le loro posizioni, poiché la percezione di una minaccia comune e di un nemico comune ha (ri)suscitato il senso di una causa europea comune.

Quando, in seguito all’invasione americana dell’Iraq nel 2003, Jürgen Habermas e Jacques Derrida lamentarono la mancanza di una comune politica europea estera e di sicurezza, erano pienamente consapevoli delle debolezze intrinseche nella struttura dell’Unione europea. Una struttura politica basata sul consenso intergovernativo, con ciascuno degli Stati membri dotato del potere di veto, avrebbe inevitabilmente visto la portata delle sue decisioni definita dai suoi membri più restii. «Se non vogliono che l’Europa si disintegri», scrivevano all’epoca Habermas e Derrida, «gli Stati membri che desiderano dotarsi di una politica estera, di difesa e di sicurezza comune dovrebbero fare i primi passi da soli, creando così una dinamica alla quale gli altri Stati membri non potranno resistere a lungo».

Habermas e Derrida non potevano certo immaginare un’aggressione militare russa su vasta scala contro una nazione europea indipendente, ma, avendo visto la superpotenza americana agire da sola in Iraq, calpestando i suoi alleati europei con una “coalizione dei volenterosi” che aveva messo gli europei gli uni contro gli altri, i due filosofi pensavano fosse urgente trovare una soluzione alle debolezze politiche intrinseche dell’Europa.

Nella loro ricerca di un’Europa più forte, hanno intrapreso un cammino ben battuto. Il tentativo di ampliare e approfondire i legami politici tra le nazioni europee e di ridurre il deficit democratico era stato un compagno ricorrente del continuo ampliamento e approfondimento dei legami economici e giuridici. Come molti altri prima di loro, Habermas e Derrida riponevano le loro speranze nella promozione di un’identità europea comune e scrivevano: «I cittadini di una nazione devono considerare un cittadino di un’altra nazione pensando: è “uno di noi”».

Lo spettro di un superstato europeo
Anche se all’epoca era già evidente che fosse più facile a dirsi che a farsi, la speranza che il mercato comune europeo e la moneta comune avrebbero favorito una cittadinanza europea basata su un’identità europea emergente si è rivelata vana. Molto spesso i sostenitori di un’Unione europea più coesa e di una struttura politica europea più forte si sono scontrati con la difficoltà politica di trasferire la legittimità democratica, la fiducia e il potere formale dalle istituzioni nazionali a quelle transnazionali.

Lo spettro di un Superstato europeo che calpesta il governo nazionale e indebolisce il controllo democratico è rimasto un efficace spauracchio nei dibattiti sul futuro costituzionale dell’Europa. Di conseguenza, questi dibattiti non sono riusciti a generare la volontà politica di creare una federazione di Stati nazionali europei, rappresentati da un organismo democratico, legittimo e sufficientemente potente per essere incaricato del futuro comune dei suoi membri, in un mondo in cui tale destino potrebbe ancora una volta essere determinato da altri, o cadere preda della loro propensione al conflitto interno e all’autodistruzione.

Habermas e Derrida erano entrambi profondamente consapevoli dei «tradimenti dell’identità europea», cioè dell’intrinseca molteplicità nazionale e culturale («la selvaggia cacofonia di una sfera pubblica multivocale») da cui dovrebbe emergere un senso di identità e destino comune europeo. E riconoscevano che ciò non era ancora avvenuto.

A vent’anni di distanza, in un momento in cui l’impulso storico si è in gran parte esaurito e molte energie politiche sono state spese per attaccare e indebolire i principi dell’Unione, la causa di un’Europa più forte, con un’autentica politica estera e di sicurezza comune, ha ricevuto il suo argomento più eclatante. O, come ha detto Radek Sikorski, ex ministro della Difesa e degli Esteri della Polonia: «Per sopravvivere e prosperare in un mondo di giganti che combattono, l’Europa deve trasformarsi, da confederazione militarmente debole in una vera superpotenza».

La parola con la F
Dobbiamo capire se il ravvivato senso di pericolo e un’agenda comune possano tradursi in una nuova spinta per la costruzione e la ricostruzione europea. Se così fosse, credo che dovremmo chiederci ancora una volta quale tipo di ordine costituzionale potrebbe consentire alla pluralità intrinseca dell’Europa – che è fatta di popoli, lingue, culture e interessi diversi – di identificarsi e obbedire a una politica estera e di sicurezza comune.

Conosco un solo ordinamento costituzionale in grado di riunire le numerose comunità europee nel quadro di un ordine sociale comune e ragionevolmente legittimo: la federazione. Sfortunatamente, la federazione è una nozione denigrata che evoca la minaccia di un Superstato europeo onnipotente, che supera e sostituisce lo Stato nazionale. Si tratta di un chiaro e spesso deliberato fraintendimento di ciò che è – e può essere – una federazione.

“Federazione”, nella sua accezione originale latina, significa semplicemente un’unione o un trattato con nazioni fidate (“foedus”, da “fido”, “mi fido”), ed è la forma di governo preferita da alcune democrazie occidentali, in particolare la Germania e gli Stati Uniti. “E pluribus unum”, “dai molti uno”, è il motto della federazione americana fin dai suoi albori e sarebbe forse ancor più applicabile alla situazione europea, dove la diversità storica è maggiore, i precedenti di disunione e discordia più disastrosi e la necessità di un ordine comune più impellente.

È vero che la federazione è una forma sofisticata ed esigente di regime politico, poiché si basa sul presupposto della diversità piuttosto che sull’omogeneità. La Confederazione americana è stata esplicitamente progettata per gestire i conflitti insiti nella società, creando così una conseguente divisione dei poteri, in modo che, come scrisse James Madison in The Federalist, «l’ambizione vanifichi l’ambizione».

I padri fondatori dell’America hanno visto il loro Paese come il laboratorio per la creazione di una società in cui degli uomini liberi potessero governarsi da soli, senza re o principi, in una società basata sulla diversità e sul disaccordo. Credo che l’Europa sia un laboratorio simile, che sta portando avanti un esperimento più avanzato sotto molti aspetti, a causa della sua maggiore diversità e delle sue esperienze passate e presenti più conflittuali.

Una Costituzione federale per l’Europa potrebbe quindi tentare di creare ciò che all’epoca i padri fondatori dell’attuale progetto europeo, a causa del persistere di odi e risentimenti nazionali, potevano solo sognare: creare un livello transnazionale per deliberare e decidere in modo legittimo e autorevole su questioni di interesse comune. La guerra in Ucraina è un continuo promemoria di quali siano questi interessi. E potrebbe essere la nostra ultima occasione per rafforzare l’idea di Europa.

Traduzione di Giulia Federica Gadoni | Voxeurop 

Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine, con gli articoli di World Review del New York Times. Si può comprare già adesso, qui sullo store, con spese di spedizione incluse. E dal 17 novembre anche in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia

 
Pubblicato : 3 Gennaio 2024 05:45
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