La fine della sicurezza tecnologica e psicologica di Israele
Sono passati cinque giorni da quando Hamas ha lanciato un attacco a sorpresa nel sud di Israele riuscendo per la prima volta ad attaccare in profondità il territorio israeliano, compiendo crimini raccapriccianti che superano la comprensione umana. Per Israele questo è il più grande shock dalla guerra dello Yom Kippur nel 1973, anche se l’esistenza dello stato ebraico non è stata messa a rischio. Tuttavia, a differenza della guerra lanciata cinquant’anni fa da una vasta coalizione di paesi arabi, stavolta la stragrande maggioranza dei morti israeliani sono civili, non soldati caduti in combattimento. La smisurata quantità di vittime civili – e il modo in cui sono stati uccisi – rende l’attacco del 7 ottobre 2023 molto più grave della guerra di allora, poiché ha rivelato un livello di vulnerabilità che gli israeliani pensavano impossibile. Per Israele si tratta della brusca e drammatica conclusione di un’era di supremazia militare, iniziata grosso modo con la fine della Seconda Intifada e il disimpegno da Gaza nel 2005.
In soli due giorni sono stati uccisi più israeliani che durante i quattro anni della Seconda Intifada, quando il conflitto israelo-palestinese era fatto di combattimenti casa per casa nelle città palestinesi della Cisgiordania, e attentati suicidi negli autobus e nei locali pubblici di Gerusalemme e Tel Aviv. In soli due giorni, sono stati uccisi più israeliani che in tutti i conflitti dal gennaio del 2008 all’ottobre del 2023.
Pertanto, anche se l’esistenza dello stato ebraico non è in pericolo, per molti aspetti l’Israele degli ultimi quindici anni non esiste più. Stavolta le cose non torneranno alla normalità con il solito cessate il fuoco Gaza-Israele mediato dall’Egitto o uno scambio tra ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi.
Dopo il terrore dei primi anni 2000 e le difficoltà della guerra con gli Hezbollah libanesi nel 2006, la costruzione della barriera di separazione con Gaza e Cisgiordania e lo sviluppo di tecnologie difensive straordinarie come Iron Dome hanno permesso agli israeliani di smettere, gradualmente, di temere gli attentati suicidi e gli attacchi con i razzi.
La nuova condizione di sicurezza e il boom dell’high tech israeliano hanno alimentato una sviluppo economico senza eguali nei paesi occidentali. Nel 2006 gli investimenti diretti esteri superarono i tredici miliardi di dollari continuando a fluire negli anni successivi, permettendo a Israele di resistere alla recessione della fine degli anni 2000 chiudendo il decennio con un tasso di disoccupazione inferiore a quello di molti paesi occidentali. Nel 2010 il paese entrò a pieno titolo nell’Ocse, e da allora è famoso per la sua economia delle start-up dell’high tech paragonabile solo a quella della California.
Anche in questi anni ci sono stati eventi drammatici e scoppi di violenza, ma Israele ha potuto fare affidamento sull’Iron Dome per sopprimere il lancio di razzi, sulle misure di sicurezza delle frontiere per prevenire attentati, sulle eliminazioni mirate di terroristi e sui raid aerei per evitare che l’escalation diventassero spirali di violenza. Il livello di sicurezza era tale che lo stato ebraico non era più considerato una destinazione turistica da valutare con le molle, ma uno dei paesi più attraenti, per il divertimento e per gli affari.
Israele era diventato più sicuro, più forte, più aperto, e dotato da un’economia dalle performance eccezionali. Adesso è stato rimesso tutto in discussione. L’economia si è fermata per prepararsi a una lunga guerra, i voli civili sono stati cancellati, i riservisti richiamati in massa. Israele è di nuovo un paese che vive al fronte.
L’orrore di Hamas
Le Forze di difesa israeliane (Idf) stanno costruendo una base per migliaia di soldati vicino al confine con Gaza e ospedali da campo nei parcheggi sotterranei, preparandosi per una lunga offensiva. Truppe e i carri armati si stanno radunando per quella che viene ampiamente considerato come il preludio a un’inevitabile invasione di terra della Striscia di Gaza.
Il nuovo governo di unità nazionale del premier Benjamin Netanyahu ha promesso la vittoria completa su Hamas, un’operazione per il momento dai contorni indefiniti, un aspetto che non ha precedenti rispetto al passato. Quando Israele entrò a Gaza nel 2008 e nel 2014 infatti, le truppe israeliane venivano mandate nella striscia per raggiungere obiettivi precisi e limitati con l’idea di uscirne il più rapidamente possibile. In quelle due operazioni morirono in totale meno di cento soldati israeliani, dal 7 ottobre ne sono morti più di duecento.
Si ritiene che Hamas oggi conti circa trentamila combattenti, a cui vanno aggiunte le milizie affiliate, come Jihad Islamica. Sono tutti terroristi fanatici nella loro determinazione a uccidere più israeliani possibile. Hanno preparato tunnel, bunker, strade secondarie, trappole, mine, postazioni e percorsi per agguati e rapimenti. Un’invasione di terra in profondità, con i soldati israeliani che vanno a stanare casa per casa i miliziani, rischia di trasformarsi in un lungo e sanguinoso pantano: per i soldati israeliani e per la popolazione palestinese.
Israele però non ha altra scelta, in un modo o nell’altro Hamas va sradicato, per sempre. Dopo quello che è successo non è più possibile per un governo israeliano considerare Hamas una controparte con cui mediare accordi informali di convivenza come de facto è stato fatto finora. Una colpa questa che ricade totalmente sui vertici, e sui militanti, di questa organizzazione.
Hamas poteva mettere a segno l’operazione della vita: entrare in Israele, assaltare le basi militari uccidendo solo i combattenti, rapire soldati (o qualche civile) e portarli a Gaza. Ciò avrebbe messo sotto shock lo stato di Israele e il governo Netanyahu, ma senza perpetrare crimini di un orrore tale da essere paragonabile solo ai pogrom e agli eccidi nazisti.
Sarebbe stata anch’essa un’operazione di terrorismo ma di tutt’altra natura, che avrebbe costretto il governo israeliano a negoziare per riportare a casa gli ostaggi, e riacceso i riflettori sulla questione palestinese e sulle ipocrisie della normalizzazione dei rapporti tra Israele e le petromonarchie del Golfo. Invece, Hamas ha scelto di aprire le porte dell’inferno, per gli israeliani e per i palestinesi, incidendo nel corpo e nella memoria del popolo ebraico una ferita troppo profonda per essere rimarginata.
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