La favolosa carriera di Madonna e il rischio trasmissione di Formigli
«So yes: blowjobs for showers». Amiche memorialiste, amiche romanziere, amiche monologhiste, amiche con ambizioni letterarie ma con l’handicap di tenerci alla reputazione: ne abbiamo di cose da imparare da Madonna Ciccone, che sale sul palco da sessantacinquenne e così riassume la propria giovinezza squattrinata.
Avevo fame, ero al verde, dice, e io mi metto a pensare a questo secolo in cui lo star system è fatto quasi interamente di figli di qualcuno, e il punto non è mica se siano raccomandati: è che, se a casa di Marcello Mastroianni ci fosse stato da mangiare, da dove gli sarebbe venuta la determinazione? L’indolenza sarebbe stata punto di partenza e non d’arrivo.
Se Rocco Ritchie fosse stato figlio d’un ragioniere e d’una massaia, tre giorni fa avrebbe inaugurato una mostra? Forse no: magari, non cresciuto con una madre fissata con Tamara de Lempicka, non gli sarebbe mai venuto in mente di dipingere (poi sul professoressademocraticismo di Madonna ci torniamo); ma di sicuro avrebbe una tigna che non può avere essendo nato ricco.
Poi anche sui figli torniamo (quello di Sua Madonnità è un concerto pieno di figli), ma prima vorrei che ci concentrassimo su lei che arriva a New York nel 1979, e non si può permettere un letto che abbia annessi una vasca o una doccia, e allora inizia a uscire con gli uomini solo dopo accurata indagine: vivi solo? Ce l’hai un bagno? «Mi guardavano come fossi matta».
Quando arriva a «pompini in cambio di docce», «those were the days», penso che è inspiegabile che una così secca ed efficace nell’umorismo poi abbia un tale debole per i comici scarsi. In un tour di qualche anno fa si faceva scaldare il pubblico da Amy Schumer; qui c’è Bob, gigantesco tizio nero che apre lo spettacolo vestito da aristocratica di Bridgerton, lancia dollari sulla folla per evocare appunto la giovinezza squattrinata della vecchia: invece del video di “Material girl”, chissà perché mi viene in mente DiCaprio. The baroness of Wall Street.
Ho passato tutto il pomeriggio della giornata in cui la vecchia è tornata sul palco – in ritardo rispetto ai programmi: quest’estate è stata male, non si capisce bene in che termini ma sul palco dice di non ricordare cinque interi giorni della sua vita, che è la stessa cosa che ha scritto Natalia Aspesi dopo l’ictus – a cercare di ricordarmi quando ho cominciato a chiamarla «la vecchia».
Di sicuro era già «la vecchia» la prima volta che la vidi da vicino, ventun anni fa, nella sala d’attesa d’un’estetista newyorkese. Aveva una canotta: passai mesi a dire a tutti «non sapete che bicipiti, la vecchia». Aveva sette anni meno di quelli che ho io ora.
Ora che siamo tutte le vecchie, e non è mai chiaro come prima dell’inizio di questo concerto pieno di tizie che ci sono venute come il pubblico andava a vedere “Barbie”: travestito da spettacolo. Forse le uniche cose che funzionano in quest’epoca d’imbarazzante esibizionismo sono quelle che ti permettono di sentirti parte dello show, e in questo senso il concerto per i quarant’anni di carriera di Madonna è ideale: quarant’anni di look da saccheggiare, quelle vestite da “Like a virgin” (mancano solo il leone e la gondola) e quelle con la maglietta «Italians do it better» del video di “Papa don’t preach”, quelli con la M di brillocchi come orecchino e quelle con la croce di “Like a prayer” al collo.
(È “Like a prayer” la sua canzone più bella? Probabilmente sì, ma soprattutto: l’unico non didascalismo che si concede la vecchia è farla, la canzone di «and down on my knees, I will take you there», mezz’ora dopo la battuta su docce e pompini).
La più bella (direi: l’unica) idea di questo concerto è la risposta a una domanda che è impossibile non farsi: quando hai quarant’anni di carriera, come le affronti le opere di quarant’anni fa? Non ti trovi ridicola come me quando rileggo i diari del liceo? Come fai a cantare che ti senti una vergine toccata per la prima volta, quando sei la vecchia, hai sei figli, le tue foto più famose sono semipornografiche.
La vecchia risponde con un’idea (non ne vedevo una da anni). Due sagome proiettate centralmente; dietro – didascalicamente – le foto paparazzate da Ron Galella (che nessuno saprà chi fosse, in platea lì né tra i lettori qui) della loro amicizia; e in audio un duetto virtuale: lei che canta “Like a virgin”, Michael Jackson che canta “Billie Jean”.
Il che impone altre due domande. È “Billie Jean” la più bella canzone degli anni Ottanta? (Sì). Oggi, verrebbe MJ linciato più per una canzone in cui la donna è una truffatrice che vuole incastrare un tapino per una gravidanza, che per i sospetti di pedofilia? (Sì).
Il momento dolente, cioè “Live to tell” con le foto dei morti di Aids e lei su una piattaforma sospesa sul pubblico, mi viene rovinato da una paranoia e una certezza. La certezza è che il pubblico non riconosca Robert Mapplethorpe né nessuno di coloro che Madonna mette in gigantesco bianchennero come se il grande pubblico avesse degli stracci di riferimenti culturali, e infatti si anima solo quando tra le foto compare quello famoso anche per i più ottusi: Freddie Mercury, ora sì.
La paranoia è che fino a quel momento ci sono stati talmente tanti disastri tecnici – canzoni interrotte per problemi audio, schermi che impallano altri schermi, una versione di “Burning up” costruita come il fu video di “Ray of light” ma se l’avessero girato a Telesanterno nel 1983, quindi con lo scontorno malfatto e le gambe della vecchia che appaiono e scompaiono – che io per tutto il tempo temo che la piattaforma crolli, i tiranti cedano, e la vecchia mi precipiti sul pubblico. Su quello da tremila sterline a seggiola, perdipiù.
È forse in quel momento che mi appare evidente cos’è diventata Madonna, invecchiando come tutte noi e smaniando per essere di contenuti, come tutte noi, ma non volendo rinunciare alla seduttività, come tutti gli infelici abitanti di questo secolo.
Ha aperto il concerto con un vestito molto bello nonché, definizione per cui mi ucciderebbe, age appropriate; ma poi ha sfoderato le tette entro la terza canzone, e non le rinfodererà più. È quando la vedo con la canzone dolente, e le gigantografie in bianchennero, ma le tette di fuori, è allora che ho l’illuminazione: Madonna è un programma di Corrado Formigli.
Che ti proietta sugli appositi teloni scenografici i quadri di Tamara de Lempicka, perché ci tiene a farti sapere che con la ricchezza si è comprata rispettabilità culturale.
Che a un certo punto, in un’altra galleria di morti incomprensibile (direi: morti che mi hanno formata – ma c’è pure Che Guevara, mica sarà una sua influenza culturale?), mette James Baldwin, e io vorrei sapere in quanti, tra i ventimila della pienissima arena londinese, non dico l’abbiamo letto ma almeno ne riconosciamo la faccia. Secondo me un numero così minimo che li potrei invitare tutti, loro e quelli di Mapplethorpe e quelli di Galella, a cena a casa. Una cena seduti.
Che ti mette sul maxischermo la citazione istruita – George Gurdjieff sull’essere vivi, l’essere morti, l’essere sarcazzo – prima di fare “Die another day”: casomai pensassimo che quella è una canzone che ha quel titolo solo perché gliel’hanno commissionata per il James Bond che aveva quel titolo, e non perché è il suo manifesto sulla mortalità.
Madonna è la tv di Formigli incarnata in una con più talento e più posto nella storia e più tenuta sul lungo periodo e più tutto, ma quello è. Una intenzionata a darsi un tono, ma che poi svacca, perché è così che incassi (share o royalties): somigliando al pubblico più impresentabile. Una che su Tinder dichiara che il suo mito è Frida Kahlo, ma poi sceglie la foto in cui le stanno più su le tette (e se somigliasse a Frida Kahlo si butterebbe dalla finestra).
Chi non è vestito da lei è vestito con qualcosa di suo: non ho mai visto tanto merchandising addosso al pubblico d’un concerto, le magliette e i cappellini e gli accessori, quando vedo un signore sessantenne con la sportina di stoffa con la faccia di Madonna penso che, se la vecchia incassa una sterlina a souvenir, i suoi figli potranno continuare a percepirsi artisti e non dovranno lavorare mai – ma pure i suoi nipoti.
Al concerto di Madonna non esistono i musicisti. Nessuno viene ringraziato, presentato, o anche solo visto. Tranne Mercy James, la figlia diciassettenne che appare al pianoforte in una canzone: ognuna ha il saggio scolastico che si può permettere, la figlia della vecchia ne ha uno con più pubblico degli altri.
Altre due figlie compaiono durante un siparietto su “Vogue”, Madonna e la primogenita fanno le Heidi Klum che giudicano la sfilata di ballerini seminudi, e chiude la sfilata un’altra delle bambine. Forse è una campagna per avere gli asili nei posti di lavoro.
Ma anche questo fa bene a farlo, anche in questo ha capito che al grande pubblico bisogna fare da specchio, mica da via di fuga. Che, quando fanno il siparietto in cui Bob fa il buttafuori che non vuole farla entrare in discoteca, e lei scandisce «My name is Madonna», il pubblico si esalta: sì, anche a me quella volta non m’hanno fatta entrare.
Quel pubblico che è quello delle cene dell’8 marzo, che pensa sia una serata di empowerment e di autostima, mica una serata di karaoke. Che, quando la cover rammollita di “I will survive” domanda «mica pensavi mi sarei lasciata morire», non vede l’ora d’urlare alla vecchia «oh no, non io», trasformando la sé tappetino di tutte le angherie degli ex fidanzati cattivi in donna vincente e assertiva per mezzo d’un ritornello da discoteca.
Quel pubblico tale e quale (in molti casi, scommetterei: addirittura lo stesso) a quello che accompagna le figlie ai concerti di Taylor Swift dopo aver infilato braccialetti dell’amicizia che le piccine si scambieranno.
Un pubblico che, quando partono le prime note di “Live to tell”, un attacco che è impossibile non riconoscere se nel 1986 eri viva, capisce prima che lei inizi a cantare, e quando comincia, e il pezzo è effettivamente quello, si batte il cinque come avesse risolto un quiz non per dilettanti. Mitomani che dicono seri: ho la sindrome dell’impostore. Noi, insomma.
Un pubblico che, quando Madonna dice che è sopravvissuta al suo malanno perché doveva farcela «per esserci per i miei figli», annuisce forte; e quando dice che tutti insieme possiamo ottenere la pace, non solo tra Israele e Palestina ma nel mondo intero, pensa certo, giusto, quanta saggezza. Mica: figlia mia, sembri una finalista di miss America, un’opinionista di Instagram, un’ospite di Formigli.
Quel pubblico lì, nella fila per il metrò per tornare dal concerto, squarciagola canzoni, chiede alle sconosciute se anche per loro sia stata la più bella serata della vita, e quando le sconosciute (io) rispondono «ora non esageriamo», un po’ si offende.
Dopotutto ha appena visto una sessantacinquenne che in sottoveste si fa palpeggiare tale e quale a quando si infilava la mano nelle mutande nel concerto filmato in “Truth or dare”, ancora trasgressiva ma soprattutto ancora in forma: ciò che il pubblico vorrebbe essere, ciò che crede d’essere, ciò che gli piace pensare d’essere.
Ma soprattutto ha visto una che, esattamente come il pubblico pagante, ha fatto pompini per pure meno d’un bagno con vasca; ma, diversamente dal pubblico pagante, è disposta a raccontarlo, permettendo a noialtre narratrici scarse di riderne forte fingendo che tutto sia specchio, tutto, tranne le parti che ci fanno fare brutta figura.
-
Mangiare bene a Monza in cinque indirizzi
3 giorni fa
-
Come ti guido una Maison
3 giorni fa
-
Oddio, non mi starete dicendo che le idiozie dei buoni hanno perso le elezioni?
3 giorni fa
-
La squadra più hipster di tutto il Belgio
3 giorni fa
-
Come il piccolo schermo ha influenzato la democrazia italiana
3 giorni fa