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I maestri amici, i figli alle scuole calcio e il trauma del crociato

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(@assia-neumann-dayan)
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Mio figlio non è Maradona. Conosco molte persone non Maradona, alcune lo sanno, altre no, altre ancora lo sanno ma i loro genitori no, altri genitori lo sanno ma i figli no. Non è una colpa non essere Maradona, ma quello che posso dire è che la più grave tragedia che possa capitare a un adulto è quella di scoprire di non essere Maradona. Spesso, tra l’altro, lo scopre su X. Un giorno ti svegli, succede qualcosa o anche niente, e capisci di essere irrilevante, vuoi buttarti dal balcone ma abiti al pianterreno in un bilocale che ti hanno comprato i tuoi genitori.

Quindi, mio figlio ha iniziato la scuola calcio, e non è Maradona. Mi dicevano guarda che la scuola calcio è ambiente tossico, ma io pensavo fosse come tutte le altre volte quando si usa la parola “tossico”, cioè il Betty Ford per la gente che fa il dry January. E invece, eccoci qua. Per una serie di sfortunate coincidenze qualche settimana fa sono stata all’allenamento: dopo quarantacinque minuti ho scoperto che quello che stavo guardando non era mio figlio. L’avevo trovato molto migliorato, e infatti non era lui. Mio figlio ha iniziato a settembre, i suoi compagni sono anni che giocano, alcuni hanno già cambiato diverse squadre, fatto campus estivi, gira voce che qualcuno sia stato candidato al Pallone d’oro in precedenza. Sono tutte brave persone, sono anche andata alla pizzata di Natale, tutta gente normale.

Ma io in questi mesi, su quegli spalti, ho visto cose. Ambiente tossico, risse, violenza verbale, cose lanciate, nonni isterici, Maradona. Si narra che un allenatore abbia detto ai genitori di non so che squadra che lì non c’era nessun Maradona, e nessuno lo abbia più visto quell’allenatore. C’è però una cosa. In ogni singolo campo, spogliatoio, stadio, ovunque nella periferia di Milano, in centro, sulla circonvallazione, c’è scritto su ogni porta: vietato l’ingresso ai genitori. Spesso viene affissa una poesia, credo sia Cavalcanti, che vado così a sintetizzare: il giocatore gioca, l’allenatore allena, e il papà si deve fare i cazzi tuoi. I genitori non possono entrare negli spogliatoi, non possono dare indicazioni a bordo campo, devono far finta di non avercelo un figlio: ma quale ambiente tossico che qua mi sembra di sognare. Gli allenatori sono i nuovi insegnanti? Mi vien da dire: magari.

È uscita la storia di un maestro elementare che scrive sui quaderni degli alunni pensieri e cuoricini al posto dei voti. Alle elementari non ci sono i voti, cosa che lui dice nell’intervista, ma ci sono incomprensibili frasi indicative dello stato di apprendimento del bambino. I genitori queste frasi non le capiscono, i genitori stranieri magari non hanno dimestichezza con “situazione nota”, “livello intermedio”, “risorse usate”, ma che volete che sia, mettiamo i cuoricini. Questo maestro ha su Instagram centoventimila follower, posta filmati con i suoi alunni, posta i quaderni dei suoi alunni, chissà se anche questa è sovraesposizione di minori o vale solo per Chiara Ferragni. I suoi commenti sui quaderni vanno dal «stai crescendo splendida» a «ho difficoltà a capire se sei felice o triste» fino a «ti voglio bene».

L’insegnante dovrebbe entrare nel merito di quello che un alunno fa, e non di quello che un alunno è. Ci tocca ribadire ogni volta che un bambino non è il voto che prende, e che il voto basso non è un’umiliazione, ma solo l’indicazione di un lavoro fatto male, non di una persona fatta male. Non siamo tutti Maradona, nemmeno i maestri delle elementari. Il maestro Gabriele dice: «Un bambino non progredisce didatticamente se non c’è un legame, una carezza, un abbraccio, un “ti voglio bene”, un “mi prendo cura di te”, una serenità di fondo». Io capisco che questa sia un’epoca dove la gente scrive a sconosciuti “ti voglio bene” (ammetto che questa è una delle cose che più mi fa impressione del presente), ma almeno non lo fa nella scuola pubblica.

Lo dico da madre e non da maestra, ma credo che sia piuttosto pericoloso creare un mondo dove non esiste niente che non sia amorevole. Perché poi le elementari finiscono, c’è il mondo, e il mondo non ti dice che ti vuole bene. Ci sono diversi motivi per cui si è bravi a scuola, e questi motivi a volte non sono né nobili né amorevoli. Alcune persone studiano per avere un riscatto, una rivalsa, o semplicemente perché non hanno altro: il talento esiste, Maradona esiste, ma non siamo quasi mai noi, e nemmeno gli insegnanti. Anche se pensiamo che il merito non esista, quello esiste lo stesso, perché non è che se ripetiamo cento volte che è colpa del capitalismo siamo meno mediocri di quello che siamo.

Se è vero che la storia si presenta prima come tragedia e poi come farsa, stiamo attraversando la fase dei genitori amici per arrivare a quella degli insegnanti amici. I social sono pieni di insegnanti che postano temi degli alunni, o errori fatti durante le prove, o sgrammaticature, spesso per deriderli o per dire al mondo “signora mia, che livello”, peccato però che sei pagato con le mie tasse per insegnargli le quattro nozioni che non sa. Maradona è morto, la scuola no.

È che io poi lo so come finisce. Lo vedo ogni estate, nell’area fumatori delle spiagge, ogni estate assisto alla rievocazione storica della personale tragedia di ogni quarantenne. Questi adulti si ritrovano a gruppi e si raccontano che a diciassette anni avevano fatto il provino per il Genoa (non so perché, ma di solito è il Genoa) e che lo avevano passato questo provino, poi però si rompono il menisco o i legamenti o il crociato, e la loro carriera viene distrutta. Oggi lavorano in qualche ditta o pubblica amministrazione. Questo trauma del crociato viene passato di generazione in generazione, provino dopo provino, e i loro figli sono i compagni di calcio dei nostri figli, e tutti i sabati sono lì a guardare la partita ripensando al crociato rotto. Chissà Maradona cosa avrebbe fatto al posto loro.

 
Pubblicato : 24 Gennaio 2024 05:45
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