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Fabrizio Cotognini è la promessa (mantenuta) dell’arte contemporanea italiana

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(@sabino-maria-frassa)
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Poco più che quarantenne, Fabrizio Cotognini è un artista ormai affermato sulla scena dell’arte contemporanea italiana, nonché vincitore del Premio Cairo nel 2018. Diplomato in Pittura e Scultura all’accademia di Belle arti di Macerata, città in cui è nato nel 1983, ha scelto di vivere vicino al mare, a Civitanova Marche, per la famiglia e per beneficiare di una maggiore qualità della vita, che influisce positivamente sul suo lavoro.

Sehnsucht. Courtesy of Fondazione Morra Greco

Il suo gesto artistico si distingue per un costante rimando all’antico, rivisitato in chiave contemporanea, con un uso privilegiato del disegno. Cotognini integra anche le possibilità offerte dai nuovi media, esplorando varie declinazioni dell’orizzonte archeologico e storico-artistico. La sua ricerca si focalizza su temi come il tempo, la memoria e la storia, rappresentati in forme maestose, spesso capovolte, stravolte o incurvate, in un apparato scenico teso a sospenderne la stabilità. In questo contesto, la parola si unisce all’immagine in un dialogo serrato fra segno, disegno e scrittura, diventando un luogo di contemplazione e concentrazione riflessiva. Il lavoro più celebre di Cotognini consiste nell’elaborazione di libri e incisioni antiche, su cui interviene “disegnandoci” sopra con diverse tecniche e materiali.

Dettaglio dell’installazione in mostra a Palazzo Buonaccorsi (Courtesy of Fabrizio Cotognini)

L’abbiamo intervistato in un momento molto particolare della sua carriera. Il 2024 è stato infatti l’anno della ripartenza dopo una pausa, anche dal mercato dell’arte, che l’artista ha cercato per lavorare a nuove opere. Quest’anno è entrato nella Building Gallery dopo aver vinto l’edizione 2024 del Casati Prize. Una sua installazione è stata appena scelta come immagine di copertina della grande mostra “Vis-à-Vis” a Palazzo Buonaccorsi di Macerata. La curatrice, Elsa Barbieri, ci ha spiegato che «se dovessimo immaginare di rispondere alla domanda “chi sei?” o anche “chi sono io?”, è umano, troppo umano, evocare istintivamente il tentativo riuscito, rappresentato da Attempt to create the smallest painting exhibition in the world, con cui Fabrizio Cotognini cerca di creare la mostra di ritratti più piccola al mondo».

 Sei un artista ormai affermato che ha deciso di vivere lontano dai circuiti dell’arte. Com’è avvenuto?
«Sono molto attaccato alla mia terra e lo sono sempre di più con il passare del tempo. All’inizio mi mancava la contemporaneità che si respira in altre città, poi ho capito che qui, nelle Marche, ritrovo le radici di tutta l’arte contemporanea italiana. In fondo, siamo tutti figli di Carlo Crivelli, Lorenzo Lotto e Raffaello Sanzio».

Dall’oreficeria al disegno il passo è stato breve?
«Le Marche sono un territorio di artigianalità e l’oreficeria, applicata ai brand di lusso, godeva in passato di grande rilievo. Amando da sempre il saper fare e avendo una buona mano, la scelta dell’oreficeria mi intrigò molto da ragazzo e decisi così di studiarla alle superiori. Poi, prevalse il bisogno di fare arte e di studiare più pittura e scultura. Alla fine del mio percorso incontrai l’antropologia dell’arte e fu la svolta: feci pace con la storia della mia Terra e riuscii a riassemblare tutto nel mio “nuovo” gesto, che parte e riflette su ciò che è stato».

Fabrizio Cotognini, four beasts in one, 2019, bronze cast fusion, 160 x 140 x 50 cm, courtesy Parco archeologico fori imperiali, photo Giorgio Benni

Il tuo lavoro più celebre consiste nell’elaborazione di libri e incisioni antiche, su cui intervieni “disegnandoci” sopra con diverse tecniche e materiali. Con questa tipologia di lavoro, tra l’altro, hai vinto il Premio Cairo nel 2018. Come ci sei arrivato?
«Amo studiare le tecniche e l’arte antica. Sono anche un accumulatore, un collezionista “attivo” nel senso che non mi basta possedere un esempio del passato, ma lo devo fare mio, lo devo interiorizzare. Così ho iniziato a lavorare su vecchi manoscritti e, nel 2012, sono passato alle incisioni, una forma d’arte straordinaria a cavallo tra il multiplo e l’artigianalità scultorea. Ho trovato una ristampa settecentesca del Mantegna e, dopo aver meditato a lungo e passato molto tempo a osservarla in negozio, ho deciso di acquistarla e rielaborarla».

Come vivi il fatto di distruggere, cancellare o alterare queste testimonianze del passato?
«Io non distruggo nulla, rileggo e faccio mio. È vero che il mio intervento è irreversibile, ma non intervengo su opere uniche, ma su incisioni che derivano da una lastra matrice non di mia proprietà. A differenza dei libri, però, le incisioni derivano dal contatto con queste lastre che sono una forma faticosa e unica di scultura. Un’incisione vale la pena di farla solo se realizzi delle stampe, altrimenti conviene disegnare a matita, è più facile. Per questo le trovo forme d’arte così interessanti».

Lavori su disegni e tratti altrui: come vivi questo rapporto? Ogni autore su cui lavori modifica in qualche modo il tuo stile?
«Il mio stile di disegno resta costante, ma dopo anni finisco per entrare in simbiosi con ciò su cui lavoro, come se avessi una sorta di mimetismo. Opero su un territorio minimale, come direbbe Gillo Dorfles; è come se mi confrontassi direttamente con l’autore lavorando su un tratto. È come compiere un viaggio nel tempo e immergersi in un altro mondo. Parto dall’idea che il mio lavoro non migliora né corregge, ma dialoga, crea qualcosa di nuovo e diverso dall’originale. È una continua sfida e un modo per mettersi in gioco e discutere».

Hai mai pensato di lavorare con incisioni contemporanee?
«Sì, amo confrontarmi, ma non è facile. Se si tratta di artisti scomparsi da meno di settant’anni, bisogna affrontare le questioni legali degli archivi. Se dovessi lavorare con un autore contemporaneo, sceglierei Peter Halley, che sta producendo lavori su carta incredibili».

Sei arrivato alla scultura in un momento più maturo. Come mai?
«Sono arrivato alla scultura per una questione installativa del mio lavoro, temendo che non fosse valorizzato sulle pareti. Non parto mai da un’invasione spaziale con il mio lavoro scultoreo, che ritengo derivi sempre dal disegno. Gli anni di studi di oreficeria si riflettono in questo: alla base di ogni manufatto tridimensionale c’è sempre uno studio, un progetto, una serie infinita di disegni».

Nel tuo lavoro c’è spazio per lo sbaglio?
«Anche dopo molti anni, è fisiologico sbagliare e se sbaglio sono consapevole che devo gettare e rinunciare per sempre non soltanto al mio lavoro, ma anche a un materiale bellissimo pensato da un’altra persona. Certo, non intervengo direttamente sulle incisioni senza uno studio preliminare, disegni e schizzi… ma poi c’è il momento del trasferimento dell’idea progettuale sull’incisione. Una volta buttavo tutto se non ero soddisfatto, ora ritaglio le parti che mi piacciono e sto lavorando a composizioni di più incisioni, come delle maquette teatrali.

Come sta evolvendo il tuo lavoro?
«Il mio lavoro evolve attraverso piccoli passi e cambiamenti. Lavoro affinché ciò che faccio abbia la forza di sopravvivere nel tempo. Non sono mai attaccato alle opere che realizzo: da un lato, l’arte è la mia professione e le opere devono uscire dallo studio; dall’altro, lavoro sul passato per guardare e pensare al futuro. Piuttosto che un vecchio successo, mi attrae di più una nuova sfida».

 
Pubblicato : 6 Luglio 2024 04:45